Il tardo capitalismo non dorme mai. E pure i lavoratori

L’opera di Jonathan Crary della Columbia

Il sonno è di ostacolo allo sviluppo del capitalismo. È questa la tesi centrale di 24/7: Late Capitalism and the Ends of Sleep ( 24/7: il tardo capitalismo e la fine del sonno, Verso Books, 2013), l’ultimo libro di Jonathan Crary, docente di Teoria e Arte Moderna alla Columbia University di New York. Una tesi provocatoria, certamente, ma tutt’altro che inverosimile.

Abbiamo già una certa esperienza di come l’alternanza naturale tra il giorno come tempo del lavoro e la notte come tempo del riposo sia ormai per molti poco più di un lontano ricordo. Ne sanno qualcosa i nuovi lavoratori autonomi – dai precari con contratti di collaborazione ai liberi professionisti del “popolo delle partite IVA” – per i quali la retribuzione non è più commisurata alla prestazione offerta durante l’orario di lavoro (antico ricordo dell’era della fabbrica e del lavoro dipendente) ma alla prestazione del servizio concordato o alla consegna del prodotto finale. Con la conseguente estensione della giornata lavorativa senza limiti prestabiliti e senza che vi sia alcun tempo stabile dedicato incondizionatamente al sonno e al riposo. Il tutto – spesso ma paradossalmente – portato ad esempio di una maggior libertà e indipendenza.

Si tratta, per Crary, di una caratteristica fondamentale del tardo capitalismo. La rincorsa alla continua crescita della produzione economica e dei consumi, la riduzione di ogni forma di inefficienza e l’aumento del profitto, sono il credo del nostro attuale sistema economico, caratterizzato da un eccesso di indebitamento (sia privato che pubblico), anche questo figlio della necessità di far crescere i consumi. La conseguenza è che il sonno non rappresenta un’attività naturale indispensabile ad un buon equilibrio dell’attività umana, quanto piuttosto un ostacolo allo sviluppo. Il sonno, insomma, non produce, e il tempo naturale del riposo deve perciò essere eroso, eliminato o quantomeno ridotto al minimo.

I dati a disposizione sembrano confermare questa tendenza. Dalle otto ore di sonno medie di un americano adulto della scorsa generazione si è passati alle sei e mezza attuali. Una riduzione drastica, se si considera che – sembra impossibile crederlo oggi – all’inizio del secolo scorso la media si aggirava intorno alle dieci ore. Tre ore e mezzo di sonno in meno che diventano tre ore di attività in più in cui diveniamo potenziali produttori o consumatori. Può sembrare poco, ma moltiplicato per il numero di abitanti quelle ore in più di veglia hanno un effetto per nulla trascurabile: come se la popolazione aumentasse del 10 per cento. Quasi ad evidenziare come l’espansione del capitalismo sia prima passata dal boom demografico finito negli anni Ottanta all’esplosione del debito ed in particolare del credito al consumo con il successivo stallo della crescita della popolazione, fino a trasformarsi, dopo la crisi del debito, ad un aumento delle ore di attività in cui le persone sono potenziali consumatori.

Si potrebbe certamente obiettare che, in fondo, non vi è nulla di intrinsecamente disdicevole in un sistema che, a ben vedere, favorisce una maggiore duttilità dei ritmi di vita e un maggiore accesso alla possibilità di soddisfare bisogni e necessità. Per Crary, tuttavia, la possibilità di sottrarre tempo al sonno e allo stesso tempo mantenere alta la capacità produttiva non è nient’altro che un’altra illusione del 24/7.

Si tratta, da un lato, di un mito che ritorna periodicamente in ambito militare, dove si vagheggiano ricerche volte alla creazione del “soldato perfetto”, capace di mantenere un alto potenziale distruttivo in scenari di guerra senza bisogno di riposo alcuno. Un mito, appunto, perché è al contrario dimostrato come la privazione del sonno provochi danni immediati sulla salute, portando in breve tempo a psicosi e, se protratta, a lesioni neurologiche. Negli esperimenti di laboratorio, i topi sottoposti a veglie forzate muoiono dopo due o tre settimane. Come ammonisce Crary – e il paragone è di indubbio effetto – una procedura di interrogatorio prevista nelle prigioni militari americane (specialmente dopo l’11 settembre) contempla la detenzione per giorni in cubicoli illuminati ad alta intensità con musica ad alto volume, senza la possibilità di sdraiarsi. Una pratica di indubbia efficacia, dal momento che il senso di impotenza che genera in che le è soggetto conduce a una manipolabilità quasi totale.

Il che conduce, dall’altro lato, al significato positivo del sonno, che trascende la banale considerazione sulla sua necessità fisiologica. Quando dormiamo siamo anche assenti, incoscienti di ciò che accade intorno a noi; siamo, pertanto, in una condizione di massima vulnerabilità a qualunque potenziale minaccia proveniente dall’esterno. Dormire significa perciò rimettersi alla cura di qualcuno, presuppone la possibilità di potersi affidare agli altri. In breve: il sonno racchiude in sé un senso di comunità. Uno spirito che mal si confà alle dinamiche di profitto e alla logiche competitive caratteristiche del capitalismo 24/7. Il sonno, l’attività più naturale che si possa immaginare, rappresenta perciò non solo un ostacolo, ma anche un potenziale strumento di resistenza a un sistema economico che rivela sempre più spesso il suo volto feroce e disumano.

Twitter: @AlbertoMucci1

LEGGI ANCHE: