Dunque, quasi a sorpresa, e quasi senza senso, perdiamo un gioiello come la Telecom, comprata dagli spagnoli. La compra una società che ha più debiti di quella amministrata da Franco Bernabè, e forse basterebbe questo. Nelle stesse ore stiamo perdendo Alitalia: è la cronaca di una morte annunciata. Era già scritto, certo: e la compra Air France, alle sue condizioni, e la trasformerà in un vettore locale, con buona pace dell’italianità, dell’importanza strategica, e di tutte le altre balle che agli italiani sono costate tre miliardi di euro tra indennizzi, dismissioni, bad company e casse integrazioni nella liquidazione della vecchia società.
Ma se ancora non avete chiaro il quadro, se ancora la cronaca e i numeri vi ballano davanti agli occhi senza darvi un’idea, bisogna trovare un simbolo che ce lo racconti. Provate a partire da una veduta aerea di Roma: piantato nel cuore dell’Eur c’è un grande palazzo bianco pieno di archi, il palazzo che Benito Mussolini aveva voluto intitolare alla Civiltà Italiana, quello che tutti i romani non possono non vedere se vanno al mare o all’aeroporto, e che hanno ribattezzato, alla loro maniera, il “Colosseo quadrato”. Il palazzo della civiltà Italiana, nelle intenzioni di Mussolini, dove essere l’unico grande monumento che raccontasse l’Italia del XX secolo, che collegasse la Roma imperiale degli antichi romani a quella del regime. Il Palazzo della Civiltà italiana (che qualcuno chiama anche della civiltà del lavoro), è quello sul cui frontale è scritta una delle più celebri frasi della propaganda nazionalista:
“Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori”.
Sembra davvero curioso che nessuno – al di là delle cronache locali capitoline – abbia raccontato che persino questo monumento italiano è stato ceduto a Bernard Arnault, l’uomo più ricco di Francia e il quarto più ricco al mondo, quello che si fece fotografare con una valigia per spiegare che lui voleva prendere la nazionalità belga, per non pagare le supertasse sui ricchi (Liberation gli dedicò una meravigliosa copertina con un titolo eloquente: “Fottiti!”).
Arnault ha affittato il palazzo fino al 2028, per trasformarlo nella sede di un altro gruppo che l’italiano che ha comprato, gruppo Fendi, acquisito dalla Louis Vitton (e secondo l’ex assessore alla cultura Umberto Croppi lo ha pagato la metà della stima dovuta). Già, perché anche l’alta moda è in vendita, e i settantasette archi della Civiltà Italiana possono diventare cento vetrine di una made in Italy made in France.
È stato venduto ai francesi anche il marchio Gucci, e anche l’emblema stesso della gioielleria italiana, che ovviamente è Bulgari. Ma Gucci, a sua volta, ha comprato un altro ex gioiello fiorentino in fallimento, la Ginori.
E ha venduto anche Valentino, agli emiri del Qatar, che a loro volta hanno comprato anche un’altra cosetta italiana come la Costa Smeralda. I thailandesi hanno comprato l’Inter, gli americani la Roma, i turchi la Pernigotti, ancora una volta i francesi hanno comprato la Parmalat, ed è in via di cessione anche un altro gioiello pubblico, la Fincantieri, di cui si tratta la cessione in queste ore. Il Gruppo Lucchini – un tempo gioiello delle acciaierie di Piombino e di Brescia – sta chiudendo dopo essere stato spolpato dai russi, che hanno sfruttato gli impianti senza ristrutturarli, e adesso fuggono via senza che nessuno dica nulla. Sta andando via dall’Italia anche la Fiat, ormai centrifugata verso Detroit, basata in Olanda, salvata dal mercato brasiliano e pensata in America. La Lamborghini e la Ducati, malgrado tutta l’italianitá che i loro nomi sprigionano, sono da tempo proprietà del gruppo Wolkswagen.
La Standa è diventata austriaca, persino Cova, la pasticceria modello di Milano, è finita ai francesi (per 33 milioni di euro). le aziende vinicole del Chianti vengono acquistate non più solo dagli inglesi e dai francesi, ma dai cinesi e dagli indiani.
Qualcuno ha già ha ventilato – persino dentro il governo – l’idea di cedere i due ultimi grandi gioielli italiani, le due multinazionali tricolori che rispondono al nome di Eni ed Enel, per fare cassa. Si possono citare queste e altre migliaia di cessioni strategiche, nei campi più disperati, e si può farlo, magari, per vellicare bassissimi e ridicoli riflessi sciovinisti. Invece il ragionamento che mi piacerebbe incardinare da qualche parte, dentro la geografia tortuosa delle svendite italiane – tra l’Enel, l’Alitalia, la Telecom e il Colosseo quadrato – non è la riproposizione di uno slogan logoro come “Non passa lo straniero”, Ma piuttosto l’urgenza di una domanda importante: siamo davvero sicuri che ci convenga? Vendere sulla base di una strategia pianificata con razionalità può essere un investimento lungimirante. Vendere precipitosamente al banco dei pegni della globalizzazione, per tirare a campare – invece – è solo un suicidio.
Twitter: @LucaTelese