L’acquisto di Telecom Italia da parte della società Telefonica è una buona notizia. Lo è altrettanto la probabile scomparsa di Alitalia, anche se invece che andare ad Air France sarebbe meglio lasciarla fallire. Le due notizie in contemporanea sono ottime perché possono segnare la fine del capitalismo “di bandiera” (cit. da Twitter), quella commistione di interessi privati spacciati come pubblici e di interessi pubblici utilizzati per favorire gli amici privati. Il tutto sotto la foglia di fico dell’“italianità”!
Un capitalismo privato senza soldi garantito dagli affidamenti (fatti a nome di tutti noi italiani) dei Governi pro tempore e dei partiti, i veri beneficiari – assieme alle banche – di questi pastrocchi, tremendamente simili a quelli del settore energetico, dominato da aziende controllate dallo Stato che quando serve sono autorizzate a spacciarsi per pubbliche e quando no “devono” potersi comportare come private!
Per questo è utile spendere due parole su Telecom e Alitalia, affinché il “senno di poi” possa aiutare nell’analisi del presente e decidere il futuro delle aziende energetiche, tutte incluse, Enel, Eni, Terna, Snam, il conglomerato Cassa Depositi, le ex municipalizzate. Per non ripetere gli stessi errori.
Come in tutte le privatizzazioni dei servizi di pubblica utilità, forniti attraverso una rete in monopolio (perché unica e non replicabile) il vero e unico interesse nazionale è che tale infrastruttura sia completamente separata dagli interessi dei produttori/venditori che devono usarla.
L’elettricità, il gas, i servizi di telefonia fissa, ma anche l’acqua, devono poter circolare liberamente sulle proprie autostrade. Questo perché l’altro interesse collettivo sottostante è quello dello sviluppo della massima concorrenza tra produttori/venditori.
Adesso molti, colpevoli, si strappano le vesti non tanto perché il servizio telefonico di Telecom finisce ad una società straniera, ma perché vi finisce anche la rete fissa, il fatidico ultimo miglio. Rete che fu lasciata in Telecom per favorire gli amici ed aumentare il valore della cessione. È chiaro che vendere un monopolio ai privati vale di più che vendergli una società di servizi in concorrenza con altri.
Fu lo Stato (cioè i governi pro tempore, cioè i partiti che lo componevano) a speculare su un bene costruito con le bollette telefoniche degli italiani.
La soluzione sarebbe stata invece molto semplice. Sarebbe bastato togliere la rete all’ex monopolista integrato e procedere a privatizzarli separatamente, ciascuno al giusto valore. Ovviamente con il divieto di possesso di azioni della rete da parte di operatori telefonici: l’ideale per le società delle reti è farne delle public company ad azionariato diffuso. Investimento popolare perché garantito dalle tariffe d’uso decise dalle Autorità indipendenti e di regolazione e promozione del mercato.
Si può ancora fare. Lo Stato mantiene un potere sulle infrastrutture energetiche e può esercitarlo, ma non per riportare la rete nella proprietà pubblica. Se l’obiettivo è separare la rete per renderla terza e indipendente dagli operatori (unbundling, in gergo) l’Europa non ha mai avuto niente da ridire e ha sempre autorizzato queste operazioni. La rete separata sia poi venduta e con il ricavato sarà rimborsato il nuovo proprietario di Telecom.
Lo stesso errore di non separare la rete prima di iniziare le dismissioni fu fatto anche con la rete dell’alta tensione elettrica, e dallo stesso D’Alema presidente del Consiglio che “autorizzò” la cessione di Telecom. Anche nel caso di Enel lo Stato (stesso discorso: governo, partiti, etc.) imbrogliò gli azionisti, perché a parole disse che voleva aprire il mercato alla concorrenza ma nei fatti vendeva ai privati un monopolio, speculando sul maggior valore che gli analisti attribuivano all’Enel proprietaria della rete dove i suoi concorrenti avrebbero dovuto far passare i propri chilowattora.
Nel caso dell’Enel l’errore di lasciargli la proprietà della rete fu pagato dagli italiani con il black out di cui domani (26 settembre) ricorre il decennale, ma che portò però alla definitiva separazione e alla nascita di Terna.
Qual è adesso la situazione delle reti dell’energia? Lo scorso anno Snam, che possiede e gestisce la rete nazionale del gas e gli stoccaggi, è stata separata da Eni, sia pure con drammatico e ormai irrecuperabile ritardo, grazie ad una personale iniziativa di Mario Monti. Però, come Enel e Terna, anche Snam è rimasta sotto controllo dello Stato, lo stesso che controlla l’Eni, in pieno conflitto di interesse.
In più è ancora l’Eni a controllare i grandi gasdotti che portano all’Italia il gas dell’Africa del Nord. Sono una delle infrastrutture più importanti del Paese e se per una emergenza fosse necessario vendere l’Eni rischiano di passare ad un nuovo padrone. Come nel caso di Telefonica con la rete di telecomunicazione anche nel caso dei gasdotti i nuovi acquirenti (esattamente come i precedenti), potrebbero voler usare l’infrastruttura per restringere il mercato, e far alzare i prezzi.
È urgente risolvere questa situazione: tutti i gasdotti interni e internazionali di interesse strategico devono essere concentrati in Snam e anche quest’ultima va privatizzata con azionariato diffuso e neutrale. Ogni potere di influenza dei partiti sulle società energetiche va estirpato alla radice. Lo Stato deve recuperare il suo ruolo di regolatore e controllore. E basta.
Un problema analogo e altrettanto urgente riguarda adesso anche la rete di distribuzione dell’elettricità, ancora in mano all’Enel (che attraverso quella rete veicola i chilowattora dei suoi concorrenti e i propri fino dentro le case) e alle ex municipalizzate, monopoli locali come Acea a Roma, A2A a Milano e Brescia, Hera a Bologna, Iren a Torino e Genova e tutte le altre.
È qui che i destini della rete di distribuzione dell’elettricità e dei servizi di telecomunicazioni si intersecano, restituendo all’ultimo miglio di Telecom – checché ne dica il Presidente esecutivo Bernabè, che ne deve sminuire l’importanza per giustificare la cessione a Telefonica – una valenza strategica negli scorsi anni appannata dalla diffusione dei servizi wireless.
Le cosiddette “reti elettriche intelligenti” saranno tali solo se innervate dai servizi che solo la rete fissa di telecomunicazioni può garantire. Si tratta di gestire con alto automatismo flussi e contro flussi di chilowattora e tutto il “big data” di produzione (sempre più discontinua) e consumi (sempre più frazionati) cui va aggiunta la gestione dei grandi impianti, delle grandi reti e dei sistemi di storage (stoccaggi dell’elettricità).
Questo è il futuro di qualità e innovazione tecnologica su cui l’Italia può scommettere e può vincere nel confronto economico mondiale.
Simile agli altri anche il caso Alitalia, società privata alla quale il Governo Berlusconi garantì il mantenimento di una posizione dominante sul mercato nazionale (ad esempio la pratica esclusività della tratta Roma-Milano) per garantire ritorno economico alle imprese che parteciparono all’acquisto della compagnia sull’orlo del fallimento.
Prodi l’aveva invece promessa ai francesi e Berlusconi, visti i sondaggi, giocò buona parte della campagna elettorale sull’italianità della compagnia. Peccato che la stragrande maggioranza degli italiani, ai quali piaceva la bandiera nazionale sulla coda degli aerei, non avesse mai “goduto” dei disservizi di Alitalia!
Sbagliavano sia Prodi che Berlusconi, perché non si chiesero quale fosse il vero interesse degli italiani, ma decisero in base ad altre considerazioni. All’Italia infatti serve avere negli aeroporti le migliori compagnie mondiali in concorrenza tra loro per poter scegliere il meglio e il più economico. E quelli più capaci di portarci beni e turisti.
Per questo ciò che conta non è la nazionalità delle compagnie, ma i diritti di utilizzo delle piste, gli “slot”, l’equivalente delle reti di elettricità, gas e tlc nel settore aereo. Per raggiungere l’obiettivo sarebbe bastato mettere all’asta gli slot uno per uno con un limite di possesso, in modo da avere le 4-5 compagnie mondiali migliori al posto dell’Alitalia ormai decotta.
Certo, questa scelta implicava lasciar fallire la “compagnia di bandiera”, in realtà una fabbrica di debiti, ma non se ne ebbe il coraggio. Che grande lezione sarebbe stata per tutti i nostri pseudo capitalisti pubblici e privati! Ma anche che opportunità di rilancio per i servizi aerei e per il turismo in Italia. E con pochi problemi anche per l’occupazione perché i nuovi entranti non avrebbero che potuto riassumere gli ex Alitalia, oggi ancora in cassa integrazione.
Alcune società elettriche italiane, a causa del crollo della domanda, sono ora in gravi difficoltà. Come fu con l’Alitalia è tutta una gara per tenerle in vita, ovviamente a spese delle famiglie e delle piccole e medie imprese. Alcune centrali sono fuori mercato anche a causa degli incentivi decisi dallo Stato (in questo caso non solo i partiti, anche le banche, che poi sono la stessa cosa) per le rinnovabili. Ebbene, si calcoli il valore di questi standed cost e li si rimborsi. Punto.
Meglio un costo adesso, subito, che poi finisce a data certa, piuttosto che continuare a distorcere il mercato tenendo in vita impianti che non potranno più lavorare. Senza pensare alla miriade di altre rivendicazioni e richieste di protezione – il più delle volte infondate – di tutti gli altri! Che poi vincono sempre i più forti: a spese di famiglie e PMI.
La scelta di lasciar fallire Lehman Brothers nel settembre del 2008 non simboleggiò la crisi finanziaria mondiale, ma l’uscita da essa. Fu il segno della volontà di ripresa. Chi deve pagare paghi, chi deve chiudere chiuda, e poi si riparta. Il mercato dell’energia è soffocato da sussidi, aiuti e aiutini di ogni tipo. È urgente un segnale forte come fu quel fallimento.