E alla fine l’ex rottamatore si alleò con i suoi ex nemici, tutti insieme appassionatamente alla guida del Pd: a ben vedere il problema non è degli ex nemici, ma suo: proviamo a vedere perché. Tutto comincia da questa frase di Dario Franceschini, alla Festa nazionale del Pd a Genova: «Se Renzi, come ha detto, lavorerà da segretario per innovare il Pd, tenendolo unito e non dividendolo – ha detto il ministro dei rapporti con il Parlamento – sono pronto a votarlo». Non ci deve stupire certo il plateale colpo di teatro, perché in politica ne abbiamo visti tanti, e anche di molto efficaci. Non ci deve stupire l’alleanza fra due ex ragazzi democristiani che non se le mandavano a dire (Renzi definì il futuro ministro in una celebre stoccata, con queste parole affilate: «Franceschini è il vicedisastro del Pd»). E nemmeno ci deve sorprendere l’idea del cambio di fronte che, può piacere o meno, ma è il sale della politica (o almeno di una certa politica) e non è necessariamente regolato da criteri di sportività decoubertiniana. Stupisce più di tutto, invece, il ragionamento con cui si è arruolato sul carro di Renzi un altro grande ex nemico che viene come lui dal Ppi, Beppe Fioroni: «In un congresso in cui c’è un candidato che rappresenta l’80 per cento e cinque sei o sette candidati che faticano tutti insieme a dividersi il 20 per cento, io prendo atto che c’è un solo candidato». Fioroni era uno che diceva di Renzi, solo pochi mesi fa: «È un ragazzo presuntuoso, si dovrebbe dare una calmata». Era alleato di Pierluigi Bersani, e ripeteva insieme a Franceschini, per tutta la campagna delle primarie: «L’idea della rottamazione è un’idea violenta e volgare».
Ma nulla di questo sorprende. È molto radicata nella cultura democristiana, infatti, l’idea che ci si associa con il proprio ex nemico per stringerlo un abbraccio mortale, si governano i partiti mettendo insieme maggioranze sterminate, è meglio avere unanimismo di facciata su cui contare, anche a prezzo di una apparenza birichina e ipocrita, che una maggioranza e un’opposizione divise sui problemi reali. Ha ragione Civati, quando denuncia che così si finisce a fare “le larghe intese” anche nel Pd. Certo, a molti iscritti e militanti che vengono dalla storia della sinistra questa scelta farà venire l’orticaria, e forse produrrà qualche consenso controcorrente per lo stesso Civati e per il terzo candidato, Gianni Cuperlo. Però il colpo d’occhio sulla prima fila del partito, sull’organigramma che conta, stupisce sempre di più, per la forza e la velocità con cui sta avvenendo la mutazione di pelle: è un ex democristiano non solo il segretario in pectore del partito, lo stesso Renzi, è un ex democristiano il capodelegazione del partito al governo, lo stesso Franceschini, è un ex democristiano anche il presidente del consiglio, Enrico Letta, che probabilmente seguirà Franceschini nella sua scelta di campo in favore dell’ex sindaco di Firenze. Tempo fa ho scritto su Linkiesta un articolo per riflettere sul fatto che era un segnale importante l’assenza di un competitor di sinistra (che non sia un outsider) per Renzi. Adesso credo che – discretamente – si stia celebrando un piccolo terremoto politico. Il patto di larghe intese fra gli ex fratelli-coltelli democristiani del Pd, però, regge in un solo caso: se il governo dura. Perché solo in quella eventualità le poltrone che contano – segretario e premier – resteranno due. Se il governo dura Renzi farà il segretario e Letta gestirà il semestre europeo. Ma se invece c’è la crisi, e il governo Letta cade, ci sarà posto solo per uno: o lui o Renzi, uno solo candidato per Palazzo Chigi. Chissà, se questo accade, quanti divorzi frettolosi conteremo tra gli ex nemici che oggi si abbracciano.
Twitter: @lucatelese