Credo di essere una delle persone più solidali che si possano trovare nei confronti delle battaglie delle coppie omosessuali per i loro diritti, non ho nessun tabù sul tema della cosiddetta “omogenitorialità”, ma forse anche per questo, lo confesso, sono terrorizzato dalla battaglia tutta cerebrale e nominalistica intorno alla sostituzione dei due vocaboli simbolicamente più densi e pregnanti del nostro vocabolario. Non capisco davvero — insomma — a cosa serva mandare in soffitta parole piene di sostanza e problemi come “padre” e “madre”, per introdurre forzatamente l’algida variante semantica “genitore uno” e “genitore due”.
Ho visto però che a Bologna — dove le nuove definizioni sono state stampigliate nella modulistica del Comune — lo hanno già fatto, e dubito che questo terremoto burocratico possa essere considerato un salto di qualità, o un progresso, qualunque sia la direzione in cui ci si propone di andare. Direi, più in generale, che le rivoluzioni, soprattutto quelle del costume, prima si fanno e poi si nominano, mentre l’idea di cambiare la famiglia italiana (come qualsiasi altra cosa) a partire dal vocabolario, rischia di essere astratta, gratuita, presuntuosa e insieme infondata. È vero, la rivoluzione francese arrivò fino alla palingenesi utopica di riscrivere l’intero calendario, coronando l’ambizione di battezzare un nuovo tempo. Ma i giacobini realizzarono questo strappo simbolico dopo che avevano già espugnato la Bastiglia, decapitato un sovrano, liquidato l’aristocrazia come zavorra nel conflitto dei nuovi poteri che animava la società francese bene prima del 1789.
Se invece la nostra fotografia attuale è quella di un paese in cui la modernità è ancora un culto di minoranza, la lingua ufficiale dei conservatori è quella di Carlo Giovanardi, e la situazione legislativa quella di un parlamento che da tre anni non riesce nemmeno ad approvare la legge sull’omofobia, davvero qualcuno crede che si possa cambiare qualcosa partendo dai prestampati degli uffici anagrafici? Celebrare come una vittoria già avvenuta una battaglia che in realtà non è ancora cominciata rischia di diventare un boomerang colossale. I progressisti dovrebbero prima di tutto provare a spiegare alla società italiana quale è la loro idea di famiglia, e solo dopo aver affermato una nuova idea toccare l’ultimo elemento di stabilità che è rimasto un uno scenario terremotato.
Le famiglie italiane si sfasciano e si ricompongono, perdono certezze, unità, tradizioni: mettere in discussione la loro identità a partire dalla pregiudiziale nominale, significa regalare ai conservatori la bandiera disperata ma efficace del «Vogliono cancellare anche la mamma e il Papà, non lo permetteremo». E poi dove sta scritto che sia un passo in avanti anche per le famiglie omoparentali: a me un bimbo con due papà o due mamme fa molta più simpatia di un figlio di genitore uno e/o due. Perché la lingua in provetta del politicamente corretto burocratese non aiuta la diversità, piuttosto la uccide nella culla.
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