Nomen omen, direbbero i più colti. Nel nome di Kiwi, in effetti, c’è tutto il senso di una startup nata nel 2011 dall’idea del 19enne Niccolò Ferragamo e che oggi dà già lavoro a 15 persone. Tutte tra 22 e 29 anni, nell’Italia della disoccupazione giovanile che ha superato il 40 per cento.
Mentre il mondo impazza per i cinguettii di Twitter, «noi abbiamo scelto come nome e simbolo della nostra app il kiwi, uccellino piccolo, un po’ goffo e schivo che passa tutta la sua vita a cercare di volare», racconta Giulia Cian Seren, che nel team si occupa del marketing. «Questa è la nostra filosofia: siamo partiti come 19enni, ma non rinunciamo a volare».
Prendete la storia di Facebook e ambientatela in Italia. Perché quello che questi ragazzi hanno combinato nel giro di pochi anni somiglia tanto alle avventure di Zuckerberg e colleghi. Tutto nasce in una università. Non Harvard, ma la scuola Sant’Anna di Pisa, dove Niccolò studiava Economia (e dove si è laureato con sei mesi di anticipo!). Nel collegio universitario della città toscana, con Niccolò abitano tre “cervelloni” dell’informatica, che scrivono i primi codici e algoritmi di Kiwi. L’idea c’è. Bisogna cercare i soldi.
«Nel primo giro di investimenti abbiamo raccolto 80mila euro», racconta Giulia. Grazie al passaparola ma anche grazie ai ragazzi che si rivolgono a imprenditori e professori universitari. Con il business plan di Kiwi in una mano e la prima demo dell’app nell’altra. L’idea è semplice e sembra convincente: far interagire persone che si trovano in uno stesso luogo (ci sono varie fasce di distanza) o partecipano allo stesso evento, grazie all’applicazione per smartphone “Kiwi Local”.
Giulia lo spiega meglio: «Kiwi è un social proximity networking che lavora sulla geolocalizzazione. C’è sia un aspetto ludico, magari si può chiedere alla persona che è in quel momento vicina se le va di andare a prendere una birra, ma ci si possono anche scambiare informazioni importanti. Tipo: “Hai un antidolorifico?”». Dall’ambiente globale di Twitter e Facebook al mondo locale (e reale) dell’uccellino Kiwi.
Basta scaricare l’app (gratuita) sullo smartphone. E dopo il login è possibile vedere all’istante chi, della propria “rete” è vicino ed entrare in contatto con lui o lei attraverso chat o email. Gli utenti registrati, già 10mila sparsi soprattutto nelle grandi città italiane, possono pubblicare foto e commenti, che vengono visti solo da chi fa parte della stessa rete. «È come incontrare un ex compagno di corso dell’Università durante un viaggio di lavoro che porta entrambi a Londra. O fare network con un membro della stessa associazione durante uno spettacolo a teatro. Kiwi permette di scoprire profili interessanti a due passi da noi ma che, per mancanza di informazioni o di una occasione per comunicare, non avremmo mai conosciuto».
Gli investitori iniziali erano 19. Tutte piccole quote, usate per finanziare l’attività di ricerca e sviluppo e le infrastrutture. Dopo due anni, il capitale totale raccolto ha raggiunto quota 350mila euro. L’ultimo round ha fruttato ben 200mila euro di finanziamenti. I nomi degli investitori sono top secret. Anche se, assicurano, «non ci sono grandi nomi. Quando Google verrà da noi ve lo faremo sapere».
Il team che porta avanti la startup è composto da 15 persone, nove sviluppatori e sei amministratori. Il cosiddetto “management”, anche se loro stessi ridono all’idea di usare questa parola per autodefinirsi. «Mi viene difficile dire “il mio capo“ quando parlo di Niccolò», scherza Giulia. Hanno tra i 22 e i 29 anni (il più “vecchio” è il capo del settore tecnico). «In cinque non raggiungiamo 150 anni».
Ma come si fanno i soldi con tutto questo? Oltre all’app, la società offre anche servizi di geolocalizzazione e software per le aziende. «Tu e i tuoi colleghi potete scrivervi e vedere se siete vicini o nella stessa città. Puoi decidere se prendere un caffè con loro o evitarli», spiega Giulia. «Kiwi rende digitali le relazioni umane». Che non significa «rendere digitale la vita o perdere l’aspetto umano a favore di quello virtuale. Al contrario, vedendo la persona vicina che ha Kiwi, si può passare dal digitale al vis-a-vis. E chiedendo informazioni alle persone vicine che non conosci, puoi anche facilitarti la giornata, magari facendoti consigliare un buon ristorante». Poi ci sono i software da vendere alle attività commerciali per vedere i messaggi che si pubblicano in quel momento in quel posto su uno schermo, ma anche la pubblicità (locale ma non solo) e le app personalizzate per associazioni o organizzazioni. «Può essere un gruppo religioso o un’associazione culturale, che in questo modo si dota di un social interno. Così viene garantita maggiore privacy rispetto a Facebook».
La maggior parte dei componenti del team di Kiwi frequenta ancora le aule universitarie, tra master e specializzazioni. Ma alcuni di loro hanno già esperienze in altre aziende. Niccolò viene da JP Morgan, Mario (Parteli) ha lavorato per Deloitte, Andrea (Castiglione) ha creato Butlr. Mentre alcuni degli sviluppatori hanno già lavorato per Google. «Siamo andati dagli investitori portandoci dietro anche queste esperienze e queste referenze», raccontano.
Perché questa non è mica la Silicon Valley. E «in Italia difficilmente prendono sul serio un 25enne che si presenta a chiedere soldi per la sua azienda», racconta Giulia. «Noi ci siamo riusciti perché siamo convinti della nostra idea. Non lo abbiamo fatto perché ci annoiavamo, ma perché volevamo fare qualcosa di nostro. Insomma, non è vero che in Italia va tutto male. Ma è più facile fare qualcosa di tuo anziché avere lo stesso ruolo o la stessa posizione in un’azienda». Certo, «alcuni ci hanno risposto “a 22 anni cosa vuoi fare?”. Ma non voglio parlare delle cose negative! La cosa importante sono stati quelli che hanno creduto in noi, magari rivedendo loro stessi a vent’anni».
La sede legale dell’azienda è a Pisa, ma i ragazzi di Kiwi sono cittadini del mondo. Nella città della torre pendente ci sono quelli che si occupano della programmazione. Poi c’è chi vive tra Londra, chi a Milano, chi a Malta, chi a Torino, chi a Roma. E anche l’organizzazione del lavoro è innovativa. Certo «si lavora molto, ma in maniera assolutamente flessibile. Non timbriamo il cartellino. Ci sono giorni in cui, io che vivo a Malta scelgo di fare windsurf e poi lavorare tre ore, altri in cui lavoro 15 ore. Spesso si lavora anche la domenica. Il che significa anche rinunciare a una festa o a un’uscita con i nostri coetanei».
Così «riusciamo ad avere uno stipendio. C’è una parte fissa e una parte variabile. Certo non guadagniamo 5mila euro al mese, mangiando ostriche e champagne, ma a 22 anni riesco a mantenermi con quello che guadagno», racconta Giulia. E in questi pochi anni i ragazzi di Kiwi hanno anche licenziato. «Si discute e possono esserci anche delle incompatibilità, fare startup non è una cosa adatta a tutti». E gli investitori, «che conoscono meglio di noi come funziona il mercato, ci fanno da guida consigliandoci cosa è meglio fare, visto che quello che stiamo facendo noi molti di loro lo hanno già fatto in passato».
Ma la storia non finisce qui. Kiwi è alla ricerca di nuovo personale e il prossimo obiettivo è un nuovo round di investimenti da 1 milione di euro per lanciare sul mercato la piattaforma business to business per aziende e fornitori.«Cerchiamo sempre nuove persone da assumere, persone in gamba che si riconoscono nei nostri valori, sia nel lato tecnico sia nel lato amministrativo. Non guardiamo il voto di laurea, ma l’attitudine. Scegliamo chi ha davvero voglia, non chi cerca un lavoro qualsiasi pur di lavorare». Le candidature sono aperte. «Non è vero che in Italia va tutto male».
Twitter @lidiabaratta