IstruzioneAtenei italiani, un mare di mediocrità

Il rettore del Politecnico di Milano

Livio, il nome è di fantasia, ha 29 anni e vive a Milano dove lavora come tecnico di rete. La sera, in cucina, cerca una soluzione che non trova. Come fare, a 29 anni, a imboccare la strada giusta per svolgere il mestiere che desidera: il progettista di rete. E arrivare a guadagnare qualche centinaio di euro in più al mese. Che così non si può continuare. Con mille euro di stipendio, a Milano a fine mese restano a fatica 30 euro in tasca. Che mettono tristezza, soprattutto quando Livio pensa al sogno di formarsi una famiglia. E chi se lo aspettava ai tempi dell’università a Palermo? Livio ha speso 7 anni in una università in cui – racconta – «nessuno riesce a laurearsi in tempo perché anche se i crediti di un esame sono tre i professori ti propinano lo stesso programma del pre-riforma, i corsi sono tutti teorici e all’esame ti bocciano con estrema facilità, così ti fermi di più e paghi più tasse». Di collaborazione con le aziende mai sentito parlare. Ma la vita a Palermo costava davvero poco: 160 euro per una grande singola in centro, 100 euro per la spesa e pochissimi soldi per il divertimento serale.

«Non ci voglio pensare», dice con un velo di rabbia quando gli racconti di Niccolò, 25 anni, e stessa laurea in tasca (sia concesso, stessa mente brillante di Livio), ma presa a Copenaghen e non a Palermo. Niccolò ha avuto due offerte di lavoro a Milano prima ancora di laurearsi. Oggi in questa città fa il programmatore a tempo indeterminato e guadagna – fin dal primo giorno di lavoro – 1.500 euro al mese.

La ragnatela in cui Livio si accorge di essere finito, è simile a quella di molti altri ragazzi italiani. Si sono iscritti nella università più vicina a casa, che offriva la facoltà e il corso scelto. Nessuno ha spiegato loro come trovare quella migliore in quel campo. E nessuno – a parte poche eccezioni – avrebbe potuto e saputo farlo. Perché il sistema universitario italiano è una tela in cui proliferano tantissimi poli, tutti omogenei tra loro, assolutamente privi di una specializzazione e dove a isole di eccellenza si affiancano vasti laghi di mediocrità. Poche le eccezioni. La più lampante è quella dei Politecnici di Milano e Torino, che raccolgono molti degli aspiranti ingegneri, purché abbiano risorse sufficienti per trasferirsi al Nord.
 

ESAMIFICI IPERTROFICI

Un paper pubblicato dalla Banca d’Italia nel 2012 illustra la situazione. «Tra il 1990 e il 2010 – scrive il report a firma di Piero Cipollone, Pasqualino Montanaro e Paolo Sestito – il numero delle università italiane è salito da 58 a 89; i comuni con un corso universitario sono passati da 62 a 273; le facoltà da 356 a 629; i corsi di laurea offerti da 898 a 5.469».

Ma la vera ragione che tiene le nostre università lontane dalla parte alta dei più noti ranking internazionali, spiega la Banca d’Italia, è da cercarsi qui: «Nel nostro mondo accademico, le eccellenze, pur presenti, sono sparse tra varie università e sedi anziché essere concentrate in alcuni poli». Quasi in ogni università, continua il report, «tenderebbero a esservi isole di eccellenza e isole di mediocrità. Si tratta di una caratterizzazione importante, nel complesso negativa, del nostro sistema. La competizione tra università si è, infatti, spesso giocata più sulla saturazione dell’offerta dei corsi – al fine di attrarre un sufficientemente elevato numero di iscritti e generare molte cattedre da allocare ai propri allievi   che sulla competizione per accaparrarsi i docenti migliori e gli studenti più capaci». «In questa corsa alla copertura di tutti i segmenti dell’offerta formativa non emergono, o comunque non sono valorizzate, specifiche aree di eccellenza e la stessa didattica di base non si adegua a quelle che pure potrebbero essere le specifiche domande potenziali di un territorio».

Con i risultato che, escludendo «le sedi da poco costituite», spiegano i ricercatori di Banca d’Italia, «ogni Università tende a riprodurre un unico modello, “completando” il proprio pacchetto di corsi offerti, senza specializzarsi in alcuna propria, possibile area di eccellenza, sia essa di tipo settoriale (le diverse discipline) o di tipo funzionale (la ricerca e l’insegnamento post-graduate o l’insegnamento di base)».

L’ALLARME DEL RETTORE DEL POLITECNICO DI MILANO

«Il Politecnico quest’anno è salito al 28esimo posto delle università tecniche del mondo. Eravamo al 48esimo», annuncia Giovanni Azzone, rettore del Politecnico di Milano al convegno su Scuola università e ricerca organizzato a Milano da Treellle. Ai colleghi che mi dicono «dobbiamo fare di più», io rispondo: «È un miracolo che siamo riusciti ad arrivare fin lì». Il perché Azzone lo spiega così: «L’università che nella stessa classifica (QS University Ranking 2013) è al 20esimo posto ha il doppio dei finanziamenti pubblici rispetto a quelli ricevuti dal Politecnico. La decima ne ha il quadruplo. Vi lascio immaginare quanti soldi ricevono quelle nei primi cinque posti». È un grido di allarme quello che lancia il rettore. Il pericolo scorto è che in futuro sarà sempre più difficile avere in Italia università d’eccellenza, capaci di scalare le classifiche internazionali. Non un rischio frutto del caso, ma di una politica precisa  quella che secondo Azzone ha da sempre caratterizzato il sistema scolastico, universitario e della ricerca italiano.

Raggiunto al telefono, Azzone spiega: «La politica storica in Italia è quella che privilegia i risultati medi di sistema rispetto alle punte». Politica che si traduce in mancanza di autonomia e soprattutto “parità” di finanziamenti pubblici tra tutti gli istituti. «La si difenda pure, ma certo non si può dire che è una politica funzionale all’obiettivo dell’Italia di permanere tra le prime economie del mondo». «Le università italiane vanno male nel rapporto tra studenti e docenti», afferma concretamente il rettore. «Al Mit ci sono 6 alunni per docente, al Politecnico trenta. Per avere livelli simili al Mit dovremmo triplicare il numero di docenti, che è impossibile, oppure ridurre a un terzo il numero degli alunni, cosa che non vogliamo perché crediamo nel ruolo sociale di un ateneo pubblico come il Politecnico». L’alternativa è avere più risorse a disposizione, ma la cosa non è pressoché impossibile.

«In Gran Bretagna – continua ancora il rettore – il rapporto tra i finanziamenti ricevuti da poli d’eccellenza come Oxford e Cambridge e le università votate alla formazione ordinaria di base è di 100 a 1. In Italia lo stesso rapporto varia di soli due o tre punti percentuali. Ora, è questione di scelte. Se vogliamo un sistema complessivamente mediamente ragionevole, come finora è stato, dobbiamo anche accettare che non avremo mai università italiane tra le prime al mondo».

Il modello inglese, dove il divario tra poli universitari è netto, non è quello che Azzone ha in mente, che guarda piuttosto all’esempio tedesco. «La Germania si è data degli obiettivi precisi. Ha scelto di puntare su tecnologia e meccatronica. Ma ha fatto anche in modo che in ogni area geografica ci fosse una università d’eccellenza». Anche l’Italia, per il rettore del Politecnico, deve scegliere su quali settori scommettere, che siamo il manifatturiero o il sanitario, per poi destinare fondi in modo privilegiato alle strutture che formano figure professionali o ricercatori di cui il Paese crede di aver maggiormente bisogno. «Noi invece puntiamo su tutto, da sempre».

LA CAUSA DI TUTTI I MALI: IL SISTEMA DEI FINANZIAMENTI

fare del sistema universitario italiano un mare di mediocrità è soprattutto il modo con cui lo Stato lo finanzia. Ne è convinto tra gli altri anche il professore Andrea Ichino, docente di Economia politica presso lo European university institute di Fiesole, che descrive il funzionamento dei fondi agli atenei pubblici nel libro scritto a quattro mani con Daniele Terlizzese, Facoltà di scelta (Rizzoli, 2013). Un testo che avanza una proposta per l’università pubblica italiana, dopo aver ricostruito il panorama attuale, delineato dalla istituzione del Fondo finanziamento ordinario nel 1993 fino alle ultime novità della riforma Gelmini nel ’99 e 2010. Una ricostruzione che porta i due autori a questa conclusione: «Il sistema con cui lo Stato finanzia le università pubbliche genera incentivi sbagliati ed è inefficiente». «L’università in Italia costa poco ma, pur rendendo più di un diploma, non rende quanto potrebbe perché è finanziata con un sistema che non premia la qualità, e questo ne diminuisce la forza attrattiva agli occhi dei potenziali studenti».

Capire come lo Stato scelga di distribuire i fondi stanziati annualmente per le sue università non è impossibile, ma nemmeno immediato. Con l’aiuto del professore Ichino, lo abbiamo ricostruito in questo breve approfondimento, che è utile leggere per capire a fondo le cause di un sistema universitario iniquo:
 

 Come funziona il finanziamento pubblico alle Università

  Nel 1993 nasce il Fondo finanziamento ordinario (Ffo). E con esso il criterio della spesa storica

  A cura di Silvia Favasuli

Quello che ne esce è un sistema basato per lo più su criteri quantitativi, che eroga la gran parte dei fondi agli atenei in base al numero di studenti iscritti e dei corsi offerti, criteri che incentivano le università ad ampliare al massimo la quantità di offerta formativa e non la qualità. Ma è anche un sistema che porta con sé le conseguenze di un «peccato originale», come lo definisce Ichino. Il criterio della “spesa storica” introdotto nel 1993 secondo cui la gran parte dei fondi (il 90% circa) viene erogato in base alle spese per il personale sostenute nell’anno precedente, senza nessuna preoccupazione per la qualità degli addetti e dei loro risultati. Non solo. È un sistema che disincentiva gli atenei al risparmio sul personale (pena l’avere meno fondi l’anno successivo) e non ha mai attuato i due criteri davvero “qualitativi”, introdotti dalla riforma Gelmini e presto dimenticati: il numero di studenti occupati a tre anni dalla laurea («è ancora assente il progetto di una “anagrafe degli studenti” che permetta di tenere traccia della loro carriera», commenta Ichino) e la valutazione dei docenti da parte degli studenti stessi («mai avviata»).

Una speranza viene riposta da molti nell’Anvur, l’Agenzia per la valutazione del sistema universitario e della ricerca istituita nel 2006 e che nel giugno di quest’anno ha rilasciato il suo primo rapporto – ancora da analizzare a fondo – sullo stato della ricerca negli atenei italiani. Tuttavia, non è stato ancora deciso in che modo le valutazioni dell’Anvur impatteranno sulla distribuzione dei fondi tra atenei. «Si potrebbe scegliere di premiare i centri di ricerca che l’Anvur giudica migliori», spiega Andrea Ichino, «oppure di mantenere in vita atenei e centri di ricerca che hanno dato cattivi risultati ma scegliendo di cambiarne la gestione», continua. «Ma sono regole ancora tutto da stabilire e ad oggi è impossibile capire se le modifiche introdotte dalla Gelmini porteranno o meno a dei risultati in termini di aumento della qualità del sistema universitario italiano». Per spiegarsi meglio, Ichino ricorda che già nei primi anni 2000 fu introdotto un sistema di valutazione della ricerca, il Civr. Ma anche in quel caso nulla fu fatto per legare i risultati di quella valutazione al sistema di finanziamento statale. «Non accadde allora, perché dovrebbe succedere oggi? Resto convinto che siano gli stessi operatori delle università (i docenti in particolare) a non voler cambiare le cose, perché hanno tutto da guadagnarci nel mantenere la situazione così com’è. Solo con un governo con un orizzonte sufficientemente lungo si potrà sperare in politiche diverse».

Stessa conclusione cui giunge il report dei ricercatori di Banca d’Italia, calato come un macigno. «In Italia, alle università non si chiede e non si concede di individuare e perseguire, competendo tra loro, una propria vocazione, sia nella ricerca sia nella didattica. L’assunzione di omogeneità tra Università rende difficile l’instaurarsi di una qualche forma di competizione tra le stesse. Se la specializzazione tra università è assente, vi è invece eterogeneità dentro le singole università, con la coesistenza, dentro lo stesso ateneo di gruppi di ricerca mediocri con gruppi eccellenti, spesso coagulati attorno a figure di riferimento. Questo stato di cose mette però a repentaglio l’esistenza anche dei migliori team, che non hanno potere di governo sulle proprie risorse e dipendono per questo dall’Ateneo e dai suoi equilibri politici interni».

È EQUO UN SISTEMA CHE NON OFFRE POLI DI QUALITÀ?

La domanda che resta, alla fine di tutto, è questa. È equa una politica universitaria che costringe i migliori ad andare all’estero per trovare vere università di eccellenza e ottenere lauree che davvero valgono qualcosa? «Non lo è», risponde Azzone, «d’accordo con l’idea che anche l’Italia debba garantire a tutti gli studenti l’opportunità di accedere a poli di eccellenza senza espatriare. Non solo. Secondo il rettore, devono anche essere distribuiti in modo omogeneo sul territorio. Altrimenti si favorirà solo chi sarà abbastanza benestante da trasferirsi nelle città al Nord più care.

«La società è più veloce delle istituzioni», osserva Azzone, che dalla sua scrivania al Politecnico si è accorto che gli studenti migliori del Sud hanno ripreso a emigrare. O meglio. Gli studenti migliori del Sud e con le possibilità economiche per pagarsi gli studi a Milano. «Sono contento che le menti migliori vengano a studiare al Politecnico, ma credo anche che tutti, anche i meno abbienti, debbano avere la possibilità di trovare centri d’eccellenza abbordabili», chiosa il rettore. Del resto Niccolò a Copenaghen una zucchina l’ha pagata un euro e mezzo e l’affitto della sua singola, dopo il primo anno sovvenzionato dall’università, era di 450 euro al mese. Tre volte il costo della camera di Livio. 

Twitter: @SilviaFavasuli

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