Interi settori chiusi per colpa di pochi. Abbonati che non possono comprare biglietti per altre zone dello stadio. Nessun rimborso per le partite perse. E un regolamento diventato più restrittivo ma che non sfugge alle maglie dell’interpretazione del giudice sportivo, né al tifoso che cerca di sfuggirgli. Sono gli effetti del nuovo regolamento che dovrebbe limitare gli episodi di razzismo nel calcio. E che invece, al momento, colpisce chi non c’entra nulla.
Tutto comincia lo scorso 5 agosto, quando il calcio italiano recepisce le nuove norme Uefa in materia di razzismo: la Figc, con una circolare pubblicata sul proprio sito (la numero 45/A), da il via alla tolleranza zero. Si tratta di norme più pesanti, sia per i giocatori che per i tifosi. Chi sta in campo rischia di beccarsi fino a 10 giornate di squalifica. Nemmeno il tempo di adeguare il regolamento, che il 6 agosto Gaetano Iannini del Matera viene squalificato con il massimo della pena per aver insultato il ghanese Caleb Ansah Ekuban, di 19 anni, durante il match di Coppa Italia contro il Sudtirol.
Ma a rischiare grosso, nelle intenzioni del governo europeo del pallone, ci sono anche tifosi e squadre. Tutto sta nell’articolo 11 e 18 del Codice di Giustizia Sportiva, anticipato già dal segretario generale della Uefa Gianni Infantino nella prima metà del 2013:
«C’è bisogno di sanzioni. Se i colpevoli sono i tifosi, allora ci sarà una parziale chiusura dello stadio. Ovvero la tribuna da cui sono partiti i cori sarà chiusa. E se i tifosi fossero recidivi, allora ci sarebbe la chiusura dello stadio e un’ammenda di almeno 50 mila euro».
Detto, fatto. L’articolo 11 abolisce innanzitutto multe e diffide che non siano accompagnate da chiusura parziale dello stadio. Si va in progressione: «In caso di prima violazione si applica la sanzione minima di cui all’articolo 18, comma 1, sezione e». In caso di recidiva, oltre alle multe si arriva alla gara a porte chiuse, fino alla sconfitta a tavolino, come recita appunto l’articolo 18. Arrivano così le prime chiusure di curve, i settori che nelle intenzioni della Uefa saranno i settori più colpiti.
A farne le spese sono i tifosi di Roma, Inter e Milan, che in questa stagione da poco iniziata si sono viste chiudere le curve di Olimpico e San Siro rispettivamente contro Hellas Verona e Lazio nel caso della Roma, contro la Fiorentina nel caso dell’Inter e contro la Sampdoria in quello dei rossoneri. A Milano, mentre le squadre giocano, i tifosi di Inter e Milan si radunano fuori San Siro, esclusi dai rispettivi match. Protestano contro il giudice sportivo Tosel, che ha decretato la chiusura dei settori applicando il regolamento.
Il Codice prevede che si debba punire solo in caso di razzismo e discriminazione territoriale. Accade così che i tifosi del Milan, cantando «Noi non siamo napoletani» fuori dallo stadio durante la partita contro la Sampdoria, non vengono puniti ulteriormente. L’articolo 11 comma 3 del codice di giustizia sportivo parla chiaro: «Le società sono responsabili per l’introduzione o l’esibizione negli impianti sportivi da parte dei propri sostenitori di disegni, scritte, simboli, emblemi o simili, recanti espressioni di discriminazione. Esse sono altresì responsabili per cori, grida e ogni altra manifestazione espressiva di discriminazione». L’esterno c’entra solo in relazione a fatti violenti «quando siano direttamente collegati ad altri comportamenti posti in essere all’interno dell’impianto sportivo, da uno o più dei propri sostenitori se dal fatto derivi un pericolo per l’incolumità pubblica o un danno grave all’incolumità fisica di una o più persone».
Ma la definizione di razzismo resta controversa, almeno secondo molti appassionati di calcio. «La nostra curva – racconta Dario, tifoso del Milan abbonato della Sud – non è razzista. Da molti anni è diventata apolitica (prima era addirittura di sinistra) e simboli politici, striscioni e cori connotati politicamente non se ne sono mai visti negli ultimi decenni. Non parlo di quello che può essere successo ad altre tifoserie, ma noi razzisti proprio no». E i cori contro i napoletani? «Chiunque vada allo stadio da abbastanza tempo sa che sono sfottò, si sono sempre fatti, da nord a sud. Anche siciliani e calabresi prendono in giro i napoletani, e i napoletani prendono in giro noi. Non esiste che sia considerato razzismo. Oltretutto – anche nei casi diversi dal nostro, in cui effettivamente c’è stato razzismo – non ha nemmeno senso che venga punita un’intera tifoseria per il comportamento di pochi».
E le ragioni dei tifosi non sono completamente sconnesse da argomenti giuridici. Lo spiega a Linkiesta Lucio Colantuoni, docente del corso “Diritto sportivo e contratti sportivi” presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano e direttore del Centro Studi Diritto Sport: «Per quanto riguarda la discriminazione territoriale la norma non dice nulla a riguardo per cui tutto è nelle mani per così dire del giudice sportivo che sta facendo giurisprudenza». Non sono mancati finora gli oscillamenti nelle sentenze, ad esempio a Monza. Durante il match contro il Rimini, da alcuni “tifosi” lombardi arrivano fischi e uluati al giocatore avversario Ahmet Fall.
Secondo il regolamento, che ha recepito le nuove disposizioni più restrittive della Uefa in materia di razzismo, dovrebbe scattare la chiusura del settore da cui sono arrivati i cori razzisti, come previsto dall’articolo 11 del codice di giustizia sportiva. E invece, sorpresa: solo multa di 9mila euro da parte del giudice sportivo di Lega Pro «perché i propri sostenitori, più volte durante la gara, intonavano cori inneggianti alla discriminazione razziale in occasione delle giocate di un calciatore di colore della squadra avversaria, costringendo l’arbitro ad una breve sospensione della gara per opportuni provvedimenti». Uno sconto che sempre secondo il giudice deriva «fattiva collaborazione della società e dei tesserati».
Ma come, la collaborazione non era stata cancellata dalle nuove norme Uefa? Certo, da quando c’è il nuovo proprietario Anthony Emery Amstrong, il Monza ha dato vita a una massiccia campagna anti-razzismo, culminata con l’invito del ministro Kyenge in Comune. Ma resta aperta la questione dell’interpretazione di un regolamento con l’applicazione di norme cancellate lo scorso agosto. «La linea è molto sottile. Cori come quelli di Milan-Napoli, ad esempio si sentono da sempre negli stadi (anche per esperienza personale diretta) – prosegue Colantuoni – per cui l’opinione pubblica può faticare ad accettarli come discriminatori. Però questo è il trend, e l’inasprimento della norma parla chiaro: la federazione vuole la linea dura contro tali episodi».
La linea dura prevede anche una responsabilità oggettiva per i settori da cui partono i cori ritenuti discriminatori: tutti pagano, e subiscono il danno economico conseguente, anche senza avere nessuna colpa. «Lo scopo della norma – precisa Colantuoni – è punire le società, non i tifosi. Tuttavia anche i tifosi, specie quelli “incolpevoli” ne risentono negativamente. Ma qui sta una parte dello scopo, quello di disincentivare ma anche isolare e perseguire solo i “facinorosi” con collaborazione da parte del resto della tifoseria. Giuridicamente trattasi tuttavia di vera e propria responsabilità oggettiva, senza rinvenire canoni di culpa in vigilando (cioè attribuire una responsabilità per non aver “controllato” che il comportamento illecito non accadesse, ndr)».
Nonostante le buone intenzioni, questo giro di vite rischia di rivelarsi un boomerang.
- In primo luogo i tifosi che incolpevolmente vengono danneggiati potrebbero, secondo alcuni esperti di diritto, tentare un’azione legale contro le società. Finora non è mai successo ma non è da escludersi che qualcuno voglia creare il precedente giurisprudenziale con un “caso pilota”.
- In secondo luogo si pone un grave problema di ricattabilità delle società da parte dei tifosi, specie alla luce del rischio di perdere la partita a tavolino alla terza sanzione per razzismo. Ancora non si è arrivati a tal punto, ma è successo che le società subiscano le decisioni di certi gruppi ultras.
A Brescia i tifosi lo scorso anno non hanno voluto come allenatore Fabio Gallo, “reo” di aver fatto parte in passato di una squadra “nemica” come l’Atalanta. Gallo fu costretto a non sedersi sulla panchina bresciana, dopo un confronto con gli ultras che non lo accettavano come tecnico.
E il rischio è che non siano solo motivazioni sportive a muovere le curve, ma anche interessi economici. Potendo ricattare la società con una sanzione di 50mila euro – oltre ai danni derivanti dalla partita persa – gli ultrà finiscono per avere degli strumenti di pressione eccezionali per ottenere quanto richiedono. «Bisognerebbe rivedere la norma – propone ancora Colantuoni – e magari inserire delle limitazioni a tale responsabilità. Ad esempio, se la società può documentare che ha effettivamente collaborato in concreto per isolare i razzisti o limitarne i danni (telecamere, steward, etc) allora non deve esserci responsabilità oggettiva ma deve valere la prova contraria, per essere scagionati o almeno per veder ridotta la sanzione. Questo sarebbe bene anche per i fini pedagogici della normativa, perché un eccesso di responsabilità oggettiva può portare a risultati contrari: se non puoi fare niente per scagionarti da episodi di razzismo, o per vederti ridotta la pena, allora non fai niente per impedirli».
Direzione opposta rispetto a quella intrapresa dalla Uefa, le cui nuove norme prescrivono che anche se una società collabora all’isolamento dei razzisti (ad esempio chiedendo ai tifosi di smetterla attraverso i megafoni allo stadio), non viene concessa alcuna attenuante che favorisca uno sconto sulla squalifica, così come invece avveniva fino allo scorso anno. Il problema – secondo diversi esperti – è che spesso le società si mascheravano dietro questa possibilità data dal regolamento, collaborando solo formalmente alla prevenzione del razzismo e non facendo nulla di effettivo.
Ai tifosi che subiscono la chiusura della curva sono chiuse le vie più immediate per andare comunque allo stadio. Non possono comprare un biglietto in un altro settore, perché essendo il biglietto nominale altrimenti risulterebbe che ad un’unica persona corrispondono due posti. A tal proposito il responsabile biglietti della Roma, Carlo Feliziani, ai microfoni di Rete Sport aveva spiegato, prima della chiusura della curva giallorossa contro il Verona, che non era possibile fare entrare i tifosi del settore squalificato in altri settori: «Questa opportunità purtroppo non può essere concessa, nel caso specifico il Giudice Sportivo è stato chiaro, l’As Roma è stata sanzionata con la chiusura della Sud, perciò tutti i biglietti di quel settore non sono abilitati all’ingresso e non sono validi per altri settori. E’ una situazione senza sbocchi». Rocco Berardo, ex consigliere regionale dei Radicali del Lazio, si era scagliato contro questa sorta di “Daspo collettivo”: «La multa è pagata dalla società Roma ed è la società stessa che viene privata della possibilità di aprire la Curva, ma la tutto ciò non può essere accollato al tifoso, perché è la società che è colpita. Stando alle condizioni che si firmano quando si sottoscrive l’abbonamento la Roma non si ritiene responsabile se il giudice sportivo dovesse squalificare il campo o decidesse di far disputare una o più gare a porte chiuse. Questa potrebbe anche essere considerata una clausola vessatoria».
«Questo è un vero problema», per Colantuoni. «Spesso gli abbonati costretti a rimanere fuori sostengono “giustamente” di aver subito un danno economico non potendo assistere alla partita senza loro colpe. Senza considerare il paradosso che il non abbonato che frequenta la curva chiusa, può tranquillamente comprare un biglietto per un altro settore aperto. Mentre l’abbonato/titolare di tessera del tifoso non può. Certo ogni diversa disposizione in merito potrebbe rinvenirsi nei regolamenti adottati dai singoli club (come quello dell’Inter ma sono tutti similari, preoccupandosi le società di aderire allo spirito della norma di cui sopra, anche per buonapace e semplicità operativa), ma non vedo grandi via d’uscita trattandosi di ambito privatistico (anche la Roma adotta un regolamento del genere).
Ma, come spesso succede in Italia, fatta la legge trovato l’inganno. Se un abbonato “gira” con delega il proprio posto nel settore chiuso ad un amico – che non ha nessuna intenzione di recarsi allo stadio – allora potrà comprare un biglietto per sé in un’altra posizione. Resta da dimostrare che qualcuno voglia pagare doppio per godere di uno spettacolo dimezzato dall’assenza del tifo organizzato.
Twitter: @TommasoCanetta
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