Giuseppe Verdi: un genio solo e sensibile agli ultimi

La rubrica Genio del male

Durante l’anno verdiano potremmo portare con noi come utile strumento di viaggio la raccolta del materiale epistolare di Giuseppe Verdi. Un materiale utile a comporre (e soprattutto a scomporre) l’arte e la vita di un personaggio pubblico che ha attraversato per intero il XIX secolo. Tra queste carte troviamo la famosa chiusa:

«Tornate all’antico: sarà un progresso».

Nonostante le apparenze non è affatto un principio d’inerzia. In realtà potrebbe manifestare più complessivamente lo stile di vita sia del musicista sia di quel modello italiano d’impegno politico-morale. In quella lettera a Francesco Florimo, nel declinare l’invito del corpo docenti del Conservatorio di Napoli, si confida:

«Avrei voluto porre, per così dire, un piede sul passato e l’altro sul presente e sull’avvenire (ché a me non fa paura la musica dell’avvenire); avrei detto ai giovani alunni: “Esercitatevi nella Fuga costantemente… studiate Palestrina… assistete a poche rappresentazioni delle Opere moderne.. .ora mettete una mano sul cuore; scrivete e (ammessa l’organizzazione artistica) sarete compositori. In ogni caso non aumenterete la turba degli imitatori e degli ammalati dell’epoca nostra, che cercano, cercano, e (facendo talvolta bene) non trovano mai”» (5 gennaio 1871).

Qualche anno più tardi, con Arrigo Boito (5 ottobre del 1887), sarà ancora più esplicito sul principio ordinatore del progresso, arrivando a redigere un personalissimo canone musicale che, mentre include Palestrina «in primis et ante omnia», esclude Monteverdi perchè «disponeva male le parti». Simpatico il modo con cui Verdi traccia la linea del progresso: senza peli sulla lingua e con un setaccio a maglie strette. L’antico del resto non è semplicemente quel che arriva prima in termini cronologici, ma quel che arriva prima in termini di autorevolezza. 

A Franco Faccio scriverà: 

«Se i Tedeschi partendo da Bach sono arrivati a Wagner, fanno opera di buoni Tedeschi e stà bene. Ma noi discendenti di Palestrina, imitando Wagner, commettiamo un delitto patrio-musicale, e facciamo opera inutile, anzi dannosa» (14 luglio 1889).

Verdi è ancora più simpatico quando lascia trapelare una sincera autosufficienza coltivata tra i confini del “regno” di S. Agata: «È una vita molto prosaica, ma così si sta molto bene» confida al conte Arrivabene (18 ottobre 1880). Ad Opprandino si rivolge anche con il nome del suo cane Ron Ron, come nella lettera del 28 luglio del 1868, in cui, accanto alle digressioni musicali sul «povero Cimarosa», trovano spazio confidenze sincere («il dolce far niente è quello che conviene meglio all’anima e al corpo») preoccupazioni contadine (come lo stato dei vitigni) e le scuse se a Cremona non è stato trovato il biscotto desiderato. Verdi infatti è soprattutto il signore di quella grande casa di campagna in cui l’uomo colloquia con gli alberi e con le acque.

Da Parigi scrive:

«Fate tagliare le pioppe che credete necessarie a fare legnami per fabbricare… Mi accorgo che fate lavorare poco Milord e non fate domare la puledra. Non amo questo perchè i cavalli non si manterranno sani o almeno diventeranno grossi e pesanti come quelli del Rosso. Desidero altresì che i miei cavalli mangino il fieno di S. Agata. Spero altresì che farete curare la massa del letame sul quale io conto moltissimo» (28 settembre 1866).

L’anno successivo scherzerà col conte in terza persona:

«Il Maestro Verdi si trova o sulla Ferrovia di Genova, o in un pozzo a S. Agata…Mi spiego… gli è venuto in testa di far costruire una macchina a vapore per estrarre acqua da un torrentello che scorre presso la sua casa…il prelodato maestro trovasi tutto il giorno là in tondo…se tu gli dici che il “Don Carlos” non val niente non gliene importa un fico, ma se tu gli contrasti la sua abilità nel fare il magut se n’ha a male…» (16 giugno 1867). 

Sotto la scorza amicale, le lettere attingono quindi ad una solitudine fondamentale. Una solitudine totalmente diversa da quella di Beethoven il quale pur avendo costanti interessi immobiliari, una volta che la sordità lo avrà pervaso, rivelerà all’editore Peters che ogni cosa da lui compiuta fuori della musica è mal riuscita o stupida. Non così per quel contadino orgoglioso che ha fatto di S. Agata più che un luogo, un modo di essere e di cercare il progresso.

È in quella solitudine radicale che, accanto alle idee musicali che faranno il giro dei palcoscenici di tutto il mondo, matura una concretissima visione della dignità umana:

«…dovete sapere voi abitanti delle Capitali che la miseria nelle classi povere è grande, grande, grandissima; e se non ci sarà una Provvidenza sia dall’Alto o dal basso una volta o l’altra succederanno guai gravissimi. Vedi, se io fossi Governo non penserei tanto al partito, al bianco, al rosso, al nero, penserei al pane da mangiare come dice Biagio da Viggiuto…» (26 maggio 1878).

Se nella vita come nell’arte il progresso si ottiene tornando al pane da mangiare, è probabile che l’anno verdiano offra qualche prezioso spunto di riflessione: soprattutto per quel che resta della borghesia italiana. 

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