I tagli di Cameron fanno impallidire la Thatcher

Gran Bretagna in cerca d’autore

Mancano 19 mesi alle politiche del 2015 e la situazione politica inglese è alquanto incerta. Nonostante i Laburisti siano i favoriti, infatti, il premier David Cameron piace ancora agli inglesi.

Il vantaggio di Cameron, in termini di sondaggi, è tutto personale: a metà settembre il leader dei Conservatori era ancora davanti a Ed Miliband (Labour) e Nick Clegg (Lib dem), sebbene il suo gradimento sia in calo dall’inizio dell’anno. In questo è stato sostenuto da due fattori. Il primo è che, come riporta la società di analisi YouGov, tutti e tre i leader dei partiti maggioritari sono per la prima volta in calo di consensi – secondo l’editor Peter Kellner, è colpa di una società meno schierata ma anche di una politica con troppe scaramucce. Il secondo è che il suo diretto concorrente, Miliband, è un capo poco convincente

John Lloyd, ex del Financial Times, non crede che entrerà presto in Downing Street: «Nonostante sia intelligente e possa avere successo sui Tory non ha convinto tutti, nel suo partito, di poter essere un leader forte». Il silenzio con cui i sindacati hanno accolto il suo discorso, il 10 settembre, pare confermare questi mal di pancia. A fine mese, però, dopo il congresso del partito, il gradimento di Miliband è salito ai suoi massimi storici: in una settimana, grazie alla promessa di congelare i prezzi dell’energia, i Laburisti sono saliti al 42% dando 11 punti ai Conservatori.

Reggerà fino al marzo 2015? Non è detto, dicono i commentatori. Sicuramente i Tory definiranno “populismo” la mossa di “Red Ed” e lo attaccheranno sul fattore competenza economica, nella quale sono ritenuti i migliori dalla maggioranza degli inglesi.  

Il sondaggio di YouGov del 16 settembre

Proprio questo tasto, in realtà, potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio per Cameron.
Molti elettori hanno sofferto e soffriranno della politica “lacrime e sangue” del suo cancelliere dello Scacchiere George Osborne, distintosi per aver adoperato le forbici, nel bene o nel male, al fine di sanare il bilancio. Tanto più che il 2 ottobre, al congresso conservatore di Manchester, Cameron ha annunciato altri 7 anni di austerity: «Abbiamo ancora uno dei più alti deficit del mondo», ha detto, sottolineando che bisogna «finire il lavoro» di riduzione del deficit contenendo il debito, in gran parte definito «responsabilità» del Labour. «Se volete sapere quello che accade se non affrontate la crisi del debito chiedetelo ai greci», ha concluso.

Il suo governo si è fregiato di aver riportato in positivo la crescita britannica: da giugno a settembre Londra ha segnato un +0,7%, anche se il Pil è rimasto almeno 3 punti sotto quello del 2008. Il deficit, invece, grazie alla spending review è riuscito a scendere dai 159 miliardi di sterline del 2010 a 120 e si prevede arriverà a 96 miliardi nei prossimi tre anni: abbastanza per fare parlare Osborne di uno «svoltare l’angolo».

Il mondo economico in parte plaude questo risultato ma ne evidenzia alcune fragilità. Il Financial Times, ad esempio, ha sottolineato la lentezza dell’export e il rischio di una bolla immobiliare causata dagli incentivi agli acquisti, mentre la società di revisione Deloitte ha fatto notare come la produttività sia la penultima del G7. Il suo report annuale Lo stato dello Stato considera efficaci la politica di efficienza e il taglio di 23 impiegati pubblici su 100 entro il 2015. Altre misure, invece procederebbero troppo lentamente, come il tentativo di cooperativizzare un milione di dipendenti del settore pubblico. Lo stesso varrebbe per gli incoraggiamenti alle aziende ad investire e per l’aver lasciato una parte maggiore delle imposte ai governi locali. Critiche hanno riguardato i tagli alle infrastrutture, troppo elevati.
La ricetta salva-stato di Osborne ha previsto poi una serie di privatizzazioni, anch’esse non prive di clamori: a settembre si è annunciata la vendita delle Royal Mail, il servizio postale inglese, definita dai sindacati «una cosa che neanche la Thatcher oserebbe fare».

Nello stesso periodo è avvenuta anche la prima tranche di vendita della quota statale di Lloyd Bank, pari al 6%, per un valore di 3, 3 miliardi di sterline. Un’altra banca privatizzata è stata poi la Royal Bank of Scotland, che dopo aver chiuso il 2012 con un buco di quasi 6 miliardi di sterline, ha ceduto filiali a Santander. Infine, si è poi vociferato della vendita della quota inglese (valore 5 miliardi di dollari) di Urenco, la seconda compagnia al mondo che vende uranio arricchito alle centrali atomiche, detenuta insieme a Danimarca e Germania.

Tra le scelte economiche del governo, però, la più eclatante è il taglio di 7 miliardi al welfare, unanimemente definita «la più grande riforma dello stato sociale degli ultimi 60 anni». A partire da aprile il governo ha infatti ridimensionato una serie di sussidi come quello definito “universale” e percepito dal 64% delle famiglie, anche di medio reddito. Sono stati poi rivisti al ribasso gli assegni di disabilità, i benefits per ogni figlio e i sussidi per la casa ai nuclei famigliari che hanno una stanza in più rispetto alle necessità (la cosiddetta bedroom tax). Questioni che gli elettori ricordano bene e giustificano il vantaggio Labour.
A ottobre, come già ricordato, Cameron ha annunciato che proseguirà su questa linea. Per questo, al primo posto del futuro programma, ci sarebbe il taglio dei sussidi di disoccupazione a chi ha meno di 25 anni ed è un cosiddetto neet, acronimo che indica chi non studia, né lavora né apprende un mestiere. La scelta, che è vista da molti come una risposta alla “svolta a sinistra” di Miliband e al suo programma fatto di più tasse ai banchieri e più benefit ai lavoratori, è discutibile per la maggior parte degli inglesi. Però, ancora una volta, non traspare un totale disaccordo con la posizione di Cameron: secondo YouGov il 45% (contro il 36%) degli elettori ritiene giusto togliere ai neet i sussidi per la casa. Può essere quindi che neppure questo tema assicuri il vantaggio laburista.

Alle urne giocherà un ruolo anche la questione immigrazione. Anche in questo caso la politica cameroniana, per quanto poco accogliente, pare trovare consensi. L’immigrazione desterebbe apprensione nel 53% dei sudditi di Sua maestà, secondo YouGov. Il governo ha operato una restrizione dei servizi di welfare è maggiore per i non britannici: i cittadini dei 27 membri Ue, Liechtenstein, Norvegia e Islanda non potranno più richiedere il sussidio dopo sei mesi di disoccupazione e avranno più difficoltà ad accedere alle case popolari e servizi sanitari. In questo modo, i conservatori al governo hanno di fatto alzato le barricate contro bulgari e rumeni, che dal prossimo gennaio saranno cittadini europei, per evitare grandi arrivi come avvenuto con i polacchi nel 2004. «In alcune parti della Gran Bretagna gli stranieri sono la maggioranza e la gente non lo gradisce», chiosa John Lloyd. «Però passerà. Ora i polacchi sono spesso migliori lavoratori degli autoctoni».

Il sondaggio di YouGov del 29 settembre

Non decade invece la polemica antieuropea tenuta viva da Farage e dal suo United Kingdom indipendence party, che ne ha fatta la sua bandiera e ha rubato ai Tory diversi sostenitori. A gennaio, Cameron l’ha seguito sul terreno dell’antieuropeismo e ha promesso per il 2017 un referendum sulla permanenza in Ue della Gran Bretagna, in caso di sua vittoria. «Gli inglesi non sono mai stati entusiasti dell’Unione», spiega ancora Lloyd: «Hanno un parlamento che funziona e non pensano che l’Europa sia una vera democrazia». Soprattutto, la ritengono una palla al piede per la crescita: al Forum economico di Davos 2012, Cameron ha presentato una “shopping list” all’insegna di «liberismo» e «deregolamentazione» per il continente, attaccando le misure non necessarie come la politica agricola e definendo «pazzia» la Tobin tax sulle transizioni finanziarie, che avrebbe minato la supremazia della City in tal senso.

I sondaggi sull’esito del referendum sull’Ue danno esiti contrastanti: se, ad oggi, la maggioranza della popolazione voterebbe per lasciare Bruxelles, pare che i businessman temano le conseguenze negative per i propri affari e, infine, che la questione sia veramente rilevante solo per il 13% degli intervistati.

Liberal e Labour, di per sé, avversano il referendum e c’è chi dubita della reale bellicosità del premier sul rientro di poteri oltre la manica. Per Lloyd, con la consultazione, più che una dipartita «Cameron potrebbe ottenere che i leader europei si impegnino per un ripensamento della struttura attuale dell’Unione». Lo stesso che potrebbe avvenire con la Scozia, d’altronde, anch’essa alla vigilia di un’interrogazione pubblica sull’indipendenza, nel 2014.

Se bilancio, immigrazione, Europa sono temi che portano i sondaggi a favore dei Tory, è pur vero che in questi anni il premier si è sobbarcato scelte rischiose, e dopo un esordio che sbandierava la Big Society ha di fatto applicato tagli alla spesa degni della “Lady di ferro”. Che questo basti a Miliband per vincere, però, è da vedersi.

Sul fronte interno, invece, l’attuale premier non ha grossa concorrenza e rimane l’unico candidato vincente, nonostante le critiche subite di volta in volta per l’adozione delle nozze gay o per non aver seguito abbastanza Farage nell’antieuropeismo. Poco importa se a settembre alcuni dei suoi l’hanno bocciato in House of Common, votando “no” a un attacco militare in Siria a fianco degli americani: per Lloyd non è da leggersi come una sfida alla sua leadership «ma come il semplice rifiuto di un’altra azione militare». Uno scivolone, insomma. «Se l’economia continua a essere in ripresa, è probabile che la spunti su Miliband anche nel 2015».  

Twitter: @eva_alberti

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