Jet lag: verso la soluzione della sindrome fuso orario

Rubrica Scienza&Salute

Vi siete mai chiesti se siete “gufi” o “allodole”? Probabilmente saperlo vi potrebbe essere utile in vista di un lungo viaggio che attraversi almeno due fusi orario. Perché già al terzo è quasi certo che dobbiate fare i conti con i sintomi da jet lag, e le nostre abitudini di sonno/veglia sono una delle caratteristiche che lo influenzano. Ma non l’unica. Due recenti ricerche hanno svelato un altro pezzo del complicato puzzle che regola il nostro ritmo circadiano, mostrando come anche in questo caso giochino un ruolo rilevante geni e ormoni. Un passo avanti sia per comprendere questo complicato meccanismo sia per realizzare un farmaco contro la sindrome da jet lag, che certo non sarà una priorità salva-vita ma in molte situazioni potrebbe rivelarsi molto utile.

Per noi è talmente scontato e innato che non ce ne rendiamo conto, ma all’interno del nostro organismo esiste un orologio, biologico appunto, che a seconda degli stimoli esterni ci suggerisce quando è il momento di dormire e quando di stare svegli (oltre a molte altre cose). Si tratta del ritmo circadiano, che seguendo un’onda precisa ogni giorno regola le nostre azioni. Se però questi stimoli esterni cambiano all’improvviso, come quando attraversiamo un continente dopo un lungo viaggio, questo orologio si sballa e impiega un po’ di tempo prima di riadattarsi alle nuove condizioni. Ed ecco che compare la ben nota sindrome del jet lag: insonnia, sonno disturbato, nausea, irritabilità, problemi di appetito, ansia, sonnolenza diurna e ritmi alterati rispetto al posto dove si arriva. Un quadro che chiunque preferirebbe evitare soprattutto se si viaggia per lavoro, o incontri politici che richiedono un’intensa vita sociale; o se si gioca una partita sportiva. Per questo soprattutto nell’ultimo caso si arriva qualche giorno prima dell’incontro, per permettere ai giocatori di adattarsi.

La vasopressina, un ormone prodotto nel sistema nervoso centrale, sembra essere uno degli attori coinvolti nella regolazione di questi ritmi. Ne hanno avuto una prova i ricercatori dell’Università di Kyoto, che hanno scoperto come i topi privi del recettore per la vasopressina, fossero resistenti al jet lag. Certo per questi animali non si può parlare esattamente di jet lag ma di un’alterazione dei ritmi biologici. I roditori, infatti, sono animali notturni, che di giorno dormono e di notte sono attivi. I ricercatori hanno invertito queste due fasi notando che i topi in cui la vasopressina non poteva svolgere la propria funzione – perché privata del suo recettore – la sincronizzazione con il nuovo ambiente esterno avveniva in un giorno. Molto rapida in confronto alla nostra che richiede un giorno di adattamento per ogni ora di fuso.

«La vasopressina ha un ruolo importante nel mantenimento della sincronizzazione dei ritmi circadiani, come si vede dal lavoro pubblicato su Science» spiega a Linkiesta Marco Zucconi, vice presidente dell’Associazione italiana medicina del sonno (Aims) e neurologo del Centro di medicina del sonno dell’ospedale San Raffaele di Milano. «Quando c’è un cambiamento di ritmo, quindi un cambiamento di fuso e risincronizzazione con i ritmi esterni, l’ormone tende a mantenere ancora i ritmi vecchi. Per questo impieghiamo un po’ di tempo prima di adattarci. Quella della vasopressina è una funzione protettiva che ci permette di sopportare turni notturni, o levatacce di lavoro fino all’alba. Per questo prima di arrivare a realizzare un farmaco in grado di inibire i sintomi del jet lag servono ancora molti altri studi. La vasopressina, infatti, svolge anche altre funzioni a livello del sistema nervoso centrale e non sappiamo di preciso cosa comporti la sua inibizione».

Un altro “complice” responsabile della sindrome da jet lag sembra essere una proteina chiamata Sik. I ricercatori dell’Università di Oxford si sono accorti di come questa proteina sia coinvolta nella regolazione del nostro orologio biologico, esaminando topi in cui i valori di questa proteina erano stati alterati, come riportato dal lavoro pubblicato su Cell. Il risultato è stato che topi con livelli ridotti di Sik1, si adattavano più rapidamente a uno slittamento di sei ore in avanti del sonno. L’equivalente di un volo dal Regno Unito verso l’India. «Un ulteriore dimostrazione di come questo sistema sia regolato da una serie di sofisticati meccanismi cellulari» continua il neurologo del San Raffaele. «Sistema che nell’uomo si complica ancora di più perché a interferire sono anche altri fattori, come la direzione del viaggio (se vai a ovest o est, andrai incontro a un’anticipazione o posticipazione del sonno), la luce a cui si è esposti, stile di vita, età, e cronotipo. Volando a ovest per esempio, verso gli Stati Uniti, i “gufi”, che si addormentano e svegliano tardi, si adattano prima, perché si va indietro e se son abituati ad andare a letto alle 3 dormire alle 22 americane è quasi la stessa cosa. Mentre per le “allodole”, che al contrario vanno a dormire e si alzano presto, andare indietro di sei ore crea grossi disagi sociali. E viceversa andando verso est. Nei giovani e adolescenti, inoltre, è più facile adattarsi, mentre andando avanti con l’età l’adattamento è meno rapido e facile, per cui vale la pena di pensare alle contromisure prima. Poi al di là di queste considerazioni, non tutti ne soffrono alla stessa maniera. E qui probabilmente entra in gioco il fattore genetico».

In attesa che gli scienziati realizzino davvero un farmaco contro il jet lag, non ci resta che ricorrere ai metodi tradizionali: melatonina e luce. La prima è un ormone secreto di notte, con il buio, da una ghiandola del nostro organismo. La sua produzione favorisce il sonno e assumerla come integratore può favorire una regolazione del ritmo sonno/veglia. La luce invece inibisce la produzione di melatonina, per cui se come racconta Zucconi, dovete affrontare un viaggio negli Usa, può essere utile prepararsi con un’esposizione notturna alla luce che slitta in avanti di qualche ora il momento di andare a dormire. «Tutto questo ha senso se il soggiorno all’estero dura più di una settimana» conclude Zucconi. «Altrimenti tanto vale sopportare i disagi del fuso per qualche giorno. Anche perché poi quando si torna a casa si è punto a capo e bisogna ri-adattarsi ai ritmi locali».

Twitter: @cristinatogna

In collaborazione con RBS-Ricerca biomedica e salute

Twitter: @rbsalute
 

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