L’anno sabbatico, la seconda vita dei giovani israeliani

Viaggiano il doppio degli inglesi

Sono migliaia i ragazzi israeliani che, dopo il servizio militare, decidono di girare il mondo prima dell’università. Sono così tanti che fino a Bangkok e si trovano alberghi e negozi con scritte in lingua ebraica. E, si dice, da casa mandano addirittura dei rabbini a portare indietro i più scapestrati.
L’anno sabbatico non è un’invenzione dei giovani di Gerusalemme, ovviamente – nome a parte, perché in senso stretto indica il momento, ogni sette anni, in cui gli antichi Ebrei lasciavano riposare la terra, condonavano i debiti e liberavano gli schiavi. In tempi moderni, l’usanza di prendersi un lungo periodo lontani dal lavoro, in genere tra due stadi della vita, è nata in Inghilterra negli anni ’60 tra i giovani di buona famiglia. Ora è diffusa in tutto il mondo e sta timidamente prendendo piede anche da noi.

Cartello scritto in ebraico nel Nord dell’India

Perché dovrebbe stupire che sia di moda in Israele, allora? Forse per i numeri. Qui la stragrande maggioranza dei ragazzi decide di viaggiare prima dell’università, più di 5 su 9 contro l’1 su 8 dei diciottenni inglesi (secondo il British Council).
«Ho trovato israeliani in cima al Kashmir e nei bed&breakfast in India. Più dei turisti di altre nazionalità» dice Carlo, reduce da un lungo viaggio. Eppure Israele conta solo 7 milioni di persone. Carlo, italiano che ha vissuto a Gerusalemme e ha amici nel Paese, ricorda le spiegazioni sull’anno sabbatico, dipinto come una scelta abituale. In certi casi, anzi, come una necessità, perché in genere avviene dopo la leva, «per riprendersi».

In Israele il servizio militare è obbligatorio dai 18 anni e dura tre anni per gli uomini e venti mesi per le donne. «Finisci la naja a 21 anni e poi in genere i ragazzi fanno una laurea triennale perché a 24 anni vogliono essere disponibili sul mercato del lavoro», spiega Carlo. «Quella dopo la leva è la finestra temporale ideale per una vacanza prima di buttarsi nella vita lavorativa. E poi, dopo che si sono stressati per anni, magari pattugliando Hebron sotto il sole, non vedono l’ora di girare il mondo». Le mete hanno in genere due caratteristiche: sono terre “non islamiche” (niente Indonesia, per esempio) e sono economiche, perché questi ragazzi hanno da parte i soldi della paga dell’esercito ma le disponibilità restano limitate. In genere anche la tipologia del viaggio è spartana e on the road: zaino in spalla, tenda, ostelli, i giovani tendono a spostarsi tra diverse località con ogni mezzo. Anche la bici: David (nome di fantasia), oggi residente a Venezia, a suo tempo ha pedalato dal Brasile (che ospita la più grande comunità ebraica del mondo) alla Patagonia. Era partito da solo, e non è un caso isolato. «Si sentono sicuri perché sono addestrati a difendersi. Il servizio militare, poi, li ha abituati a fare marce con pesi sulle spalle, tanto che in Israele anche dopo la leva continuano ad apprezzare il camping», continua Carlo. Il suo amico Danny, israeliano, ha viaggiato da solo in India proprio dormendo in tenda per 15 mesi. «Biglietto sola andata», conferma lui. La durata media del viaggio in genere arriva ai sei mesi, variando dai due mesi all’anno. Le mete preferite sono il Sudest Asiatico e il Sudamerica; benché care, sono ambite anche l’Australia e la Nuova Zelanda, dall’altra parte del mondo; meno l’America del Nord, anche se molti giovani vengono ospitati dai parenti che vivono lì. Danny, per esempio, ha viaggiato 15 mesi di cui 10 passati in India e gli altri tra Nepal e Thailandia. 

Viaggiatori “zaino-in-spalla” su una spiaggia Indiana

«Di solito i miei connazionali si muovono in gruppi dalle quattro alle dieci persone e cercano altri israeliani quando arrivano in loco», spiega. «Alcuni lavorano metà anno per guadagnare i soldi e fare un grande viaggio» aggiunge Miriam (altro nome di fantasia), che ormai vive in Italia e il suo gap year l’ha fatto 20 anni fa. Le attività che lei descrive come più comuni sono trekking, canoa, bungee jumping, «cose che stimolano» e che si è in grado di fare dopo che l’esercito ti ha messo in forma.
Carlo ricorda di aver sentito anche di qualcuno che era andato a far volontariato in Africa e di qualcuno che invece in Sudan ci andava per addestrare i militari.
 
Molte voci, poi, parlano di attività meno edificanti a base di rave party e stupefacenti, soprattutto in India e più di recente. Gli israeliani non sono certo gli unici ad usare droghe leggere in questo tipo di viaggio, tutt’altro, ma il fenomeno sembra tanto accentuato da destare preoccupazioni in patria: secondo una vecchia stima (2003) del ministero della Salute riportata dal quotidiano Haaretz, dei 30 mila ragazzi che ogni anno si recavano nella terra dei maharaja (più i 20 mila tra Thailandia e Nepal) 1 su 15 tornava con problemi psicologici legati all’uso di stupefacenti.
Il fenomeno, nel 2006, ha meritato anche un film-documentario del regista israeliano Yoav Shamir. Il titolo, Flipping out (“Uscendo di testa”), fa riferimento alla condizione subita e ricercata da molti ragazzi, che per annientare lo stress della vita militare passano mesi a fumare hashish con serie conseguenze. Nel corto appare anche la figura di Danny Winderbaum, divenuto un religioso del movimento Chabad proprio dopo il suo anno sabbatico in India e ora impegnato nel recupero dei ragazzi più gravi. Per la cronaca, gli Chabad sono ebrei ortodossi che, come i missionari cristiani, hanno case di ritrovo in ogni parte del mondo, dal Polo nord a Shanghai.

I costumi di molti israeliani in India sono stati studiati dall’antropologa israeliana Daria Moaz, che ne ha tratto il libro India Will Love Me. «In certi luoghi gli israeliani sono il 90% dei turisti», scrive, come a Bhagsu, Dharamkot, Bashisht e Old Manali, nel Nord, o a Goa, nel Sud. Secondo lei questo fatto, unito allo stile di vita da casa dell’oppio, crea perfino tensioni con la popolazione locale (ad esempio, qui un blog indiano dedicato ai viaggiatori che stigmatizza i turisti israeliani con tanto di video).
  

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Trailer di Flipping Out

Ma non è sempre così. «Anche in Tibet e Nepal c’è un’alta concentrazione di israeliani», spiega Michele, che lavora a Venezia per la comunità ebraica: «A Kathmandu alcuni hanno aperto un locale. A livello visivo ci sono tantissime scritte in ebraico, quindi i nepalesi hanno capito che c’è sempre un’alta concentrazione di israeliani che vanno a fare trekking».
Per una sua collega i giovani che viaggiano dopo la leva sono addirittura 4 su 5.

Questa particolare intraprendenza, secondo lei, sarebbe dovuta all’esperienza nell’esercito: «Qui ci sono persone che hanno visto morie degli amici, mentre erano di leva. Immagina un ragazzo o una ragazza che per tre anni si trovano su un fronte di guerra – perché le tensioni ci sono tutt’ora. A quel punto girare l’India da solo sembra facile». Senza contare la volontà di evasione da una realtà familiare molto stretta, con usanze profonde che permeano anche la vita dei non osservati, e forse dal peso di difendere lo Stato. 
Miriam, israeliana, da invece una spiegazione molto più semplice: «Anche prima di entrare nell’esercito si usa fare un percorso dal Nord al Sud del Paese, a piedi. Per noi andare al mare è normale: è vicino, ci andiamo anche tre volte alla settimana. Siamo un popolo a cui invece piace viaggiare, e fin da piccoli siamo abituati a farlo». 
 

Twitter. @Evalberti

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