Da InternetDays a TechCrunch, tra settembre e ottobre si tenute molte iniziative per parlare di Italia digitale. Il nostro Paese è indietro rispetto all’Europa: basti dire che un terzo del territorio nazionale è a bassa digitalizzazione e gli investimenti nel settore sono un terzo di quelli della Germania. Eppure non sono poche le realtà consolidate su cui puntare, vere eccellenze nascoste che formano piccole Silicon Valley.
Il Milanese, Pomezia, Torino, Cagliari sono alcune di esse. Ma non mancano oasi più a sud.
Ciascuna è definita dalla compresenza di “sapere”, investimenti e “aiuti” legislativi o professionali che hanno permesso la nascita di attività ad alta tecnologia.
La percentuale regionale di imprese digitali sul totale (Assintel)
Queste ultime, in Italia, sono ancora poche: si contano 173.000 imprese “digitali” con 900.000 collaboratori su più di 4 milioni di aziende Made in Italy. I dati emergono dal rapporto Long Wave 2013 dell’Associazione nazionale delle imprese ICT (Assintel), che considera questo settore un possibile «motore dell’innovazione nel Paese». La categoria comprende realtà in genere medio-piccole e tante strat-up, che produrrebbero il 3,9% del Pil svolgendo attività “di servizio”: «Produzione di software, consulenza informatica e attività connesse», secondo Istat, sia Web che Mobile. Ma si conteggiano anche i «servizi di informazione», l’e-commerce e operazioni che spaziano dai Big Data al design al digital entertainment.
La maggior parte di queste nuove imprese lavora per altre aziende, con un fatturato medio di un milione di euro l’anno nelle realtà più stabili e di 100 mila di euro nelle giovanissime. Un dato interessante è poi che il settore si sta espandendo nonostante la crisi: «Come numero d’imprese (+9,3% nel triennio nero 2009/12), come addetti totali (+13,7%) e come previsioni di fatturato 2013 (in crescita per il 68 per cento)».
La crescita degli addetti e delle imprese hi-tech (Assintel)
Per quel che riguarda la loro distribuzione, la mappa italiana delle imprese digitali si presenta a macchie di leopardo.
«Di certo l’ecosistema è fondamentale» spiega Andrea Rangone, responsabile dell’Osservatorio Start-Up del Politecnico di Milano. Servono, sullo stesso territorio, imprenditori con idee, personale con un bagaglio tecnico sviluppato e soldi da investire. Molto utili sono poi gli “incubatori di start-up”, siano essi atenei o società private, dove «mentori» esperti del settore possono affiancare i ragazzi con buone idee e avviarli all’imprenditoria. Proprio la loro presenza, infatti, concentra la distribuzione delle start-up.
In tal senso, Milano rimane la capitale hi-tech del Paese. Attiva nel video making e nella pubblicità dagli esordi, al cuore del tessuto finanziario del Paese, la città oltre al Politecnico dispone di un osservatorio statistico che fornisce competenze e di un ambiente che incentiva l’impresa. Nella provincia la percentuale di aziende hi-tech, secondo dati della Camera di Commercio, sarebbe superiore all’8%, la più alta d’Italia. «Senza saperlo il Politecnico è stato culla di alcune delle avventure hi-tech del Paese – continua Rangone – come Jobrapido o MutuiOnline», entrambe quotate in borsa. Tra le imprese nate proprio nell’ateneo meneghino si conta anche il noto sito di ricerca viaggi Volagratis.
La geografia dei centri innovativi è soggetta a cambiamenti: «Fino a 10 anni fa rivaleggiavano Prato e Torino con Vitaminic. Entrambe avevano un ottimo numero di start up informatiche», spiega Gianni Riotta, ex direttore del Sole 24 Ore e autore del libro Il Web ci rende liberi. Ora certamente il capoluogo piemontese si dimostra ancora uno dei punti più fertili per le aziende innovative e, come Milano, ha un’università che cerca di ancorarsi al modello dell’industria e della finanza. Sono però emerse tante altre realtà.
Percentuale di imprese digitali sul totale per provincia (Assintel)
Molto interessante è la situazione laziale, ad esempio, dove intorno alla vecchia cintura industriale di Roma e nel distretto di Pomezia c’è molto lavoro digitale diffuso sul territorio. Nella regione gioca un ruolo anche il «connubio fra la componente formativa della Luiss, l’operatore finanziario privato EnLab e un pochino di Confindustria», chiosa Rangone.
Tra i contesti molto attivi c’è poi e H-Farm in Veneto, un incubatore di strat-up privato fondato da Riccardo Donadoni, che però si mostra più isolato a livello regionale e in fase di transizione. Anche Trento, inoltre, ambisce a sviluppare imprese tecnologiche.
La Sardegna, ultimamente definita “L’isola delle start-up”, merita una menzione a parte: «Per me che giro tutta l’Italia come talent scout non è facile trovare un posto che funziona così bene. Per quanto perfettibile, ovviamente». Mario Mariani è stato amministratore delegato di Tiscali e ora ha fondato un incubatore di start-up The Net Value. Secondo lui l’ecosistema sardo funziona molto bene grazie alla presenza ventennale di quel combinato di fattori positivi che creano l’humus delle aziende digitali: «Un polo di ricerca come il Crs4 e la partecipata regionale Sardegna Ricerche; le persone con le competenze commerciali e di marketing che hanno fatto esperienze digitali; la Regione che da 20 anni investe soldi in attività di ricerca e sviluppo e dà soldi a progetti innovativi». Aveva cominciato nel ‘91 quando l’assessore Mannoni convocò il Nobel Carlo Rubbia per creare un centro sul modello del Cern; poi si erano unite, prime in Italia, le esperienze di Grauso con Video On Line e di Soru con Tiscali, che hanno lasciato un know-how notevole sull’isola e la certezza che questo era un settore su cui investire. Ed è quello che l’amministrazione ha fatto, utilizzando i Fondi Obiettivo 1 stanziati dall’Unione Europea per il Sud fino al 2013. Per dare un’idea della vivacità attuale, dall’incubatore di Mariani in cinque anni sono passate 50 start-up e ora ce ne sono 14.
Molte di queste hanno respiro internazionale come Mychildworld.com, nata in Italia ma pensata per le mamme americane. Sicuramente «in Lombardia è più difficile», spiega Giovanni Daprà, l’amministratore di MoneyFarm, una delle imprese fuoriuscite da The Net Value. «L’offerta di collaboratori legata allo sviluppo software a Cagliari è più competitiva e ci sono molti bandi di ricerca». A Milano, a suo parere, le università sfornano meno programmatori e quelli bravi vanno nelle grandi aziende come Microsoft e non rischiano nelle imprese appena nate come la sua. D’altro canto, «la situazione cagliaritana è un unicum e c’è una qualità di costi abitativi e costi sociali difficilmente ripetibili», spiegano dallo studio Giaccardi che ha condotto il report Assintel. Però, anche se le imprese innovative del capoluogo hanno buona visibilità, la percentuale di hi-tech sul totale rimane bassa, nel complesso l’1,9% del totale.
Per quanto riguarda il Meridione, a detta del professor Rangone nell’ultimo quinquennio si sono create realtà digitali in Campania (che vanta la maggior parte delle imprese), in Sicilia – a Catania e Palermo – e anche in Calabria. Sicuramente in questo sviluppo hanno avuto un ruolo i fondi di venture capital come il Fondo Atlante Ventures, Principia Sgr e Vertis, esauriti a marzo 2013, che avevano risorse da investire partecipate per metà dal fondo Hi-Tech per il Sud (ideato nel 2008 dall’allora ministro Brunetta). «Grazie a questi fondi del Sud un moto si è creato – dice Rangone – e sono nate decine e decine di imprese. Ora perché continui si deve ricreare quel circolo virtuoso. Quindi bisogna che l’università inizi a fare meglio il suo lavoro, che i soldi non finiscano ma continuino ad arrivare, insomma che si attivi un ciclo».
Tra le imprese hi-tech nate ultimamente si deve ricordare Fanpage nel napoletano, testata autonoma che sta crescendo sul Web e Facebook; o ancora Citynews oppure Nascar, web agency nata a Napoli e trasferitasi poi a Milano. Nella sua panoramica delle realtà digitali meridionali, Riotta ricorda in particolare l’attività imprenditoriale nell’Etna Vally e di Mosaicoon a Palermo, un’ex Strat-Up che lavora per rendere virali i video in Rete e ora vanta tra i clienti Fox e Mc Donald.
La demografia Istat delle imprese digitali al Sud che producono software e affini (categoria Ateco 62) e informazioni su internet (Ateco 63)
Tra i fattori fondamentali per lo sviluppo Ugo Parodi, uno dei fondatori di Mosaicoon, ribadisce l’importanza delle società di venture e del fondo per il Meridione, di cui la sua azienda ha usufruito: «La differenza del Sud Italia, rispetto al Nord, è che manca l’industria che può finanziare la start-up all’inizio». Per questo nonostante la criticità di cui proprio il fondo è stato oggetto, ne dà una valutazione positiva. «Sicuramente non tutti i soldi disponibili sono stati investiti – dicono una sessantina di milioni su 153 – ma è successo anche perché non sono state trovate aziende competitive. È un sintomo di qualità nell’approccio».
In questo senso, i nuovi incentivi non venture capital del ministero dello Sviluppo Economico, come lo Smart&Start che offre 190 milioni per i progetti imprenditoriali innovatovi del Sud, sembrerebbero più rischiosi. Concordano osservatori diversi come il professor Rangone e il giornalista Riotta, che preferiscono la creazione di infrastrutture.
«Noi dimostriamo che se nel Sud si investe, poi non si ha niente da invidiare non solo al Nord ma anche all’Europa», continua Parodi.
Rimane però che di realtà come Mosaicoon, in Sicilia, non ce ne sono tante. E non solo per mancanza di idee: «Quando ci sono Start-Up spesso è più facile andare in Silicon Valley, in Inghilterra o anche in Irlanda, dove l’ambiente è più predisposto. Al Sud c’è un grande fermento – spiega – ma poi purtroppo o si riesce velocemente a creare sedi in luoghi con mercato come Milano o Londra o si sposta tutto fuori all’estero».
I problemi locali si aggiungono a quelli che riscontrano i founder di imprese digitali in tutta Italia: lo studio Long Wave e l’Osservatorio sulle Start-Up del Politecnico concordano che ai primi posti tra le criticità ci sia la normativa del lavoro, che si vorrebbe più flessibile proprio per consentire il lancio della società. Poi vengono la burocrazia legata alla pubblica amministrazione, la difficoltà di un accesso al credito e la mancanza di visione “digitale” di parte dell’imprenditoria.
Come testimonia l’esistenza di un’Agenda digitale governativa, il nostro Paese sconta molto il ritardo delle istituzioni e della classe dirigente in tal senso. Se per Riotta, fino ad ora, i proclami elaborati in tal senso sono stati «una presa in giro», lo stesso Francesco Caio, il responsabile dell’Agenzia nominato a giugno da Enrico Letta, riconosce che della marea di cose da fare se ne sono fatte poche: meglio dunque puntare su un numero ristretto di obiettivi ma portarli a termine. Purtroppo le Start-Up digitali non sono le prime della sua lista, incentrata sullo snellimento della pubblica amministrazione. La cabina di regia delle iniziative rimane nel ministero dello Sviluppo Economico, che promette agevolazioni fiscali e investimenti per le start-up in particolare.
Tra le iniziative per promuovere le imprese hi-tech, secondo l’Osservatorio sulle Start-Up del Politecnico, il governo dovrebbe aumentare la dotazione di risorse finanziarie attraverso fondi misti pubblici e privati, così da aumentare i ventur capitalist attivi nel nostro Paese. In questo senso, se venissero usati 300 milioni di euro per la fondazione di start-up, il centro prevede che il nostro Pil crescerebbe di 3 miliardi all’anno (0,2%).
Fondamentale sarebbe poi anche lo stimolo delle università, con sensibilizzazione degli studenti e percorsi di dottorato orientati al business.
«Se non fossimo l’Italia dei Guelfi e Ghibellini potremmo anche collaborare – sottolinea poi Riotta –. E se Milano e Torino diventassero un cluster unico, invece di contendersi il primato?». Imprenditori come Mariani, poi, più che incentivi statali a fondo perduto preferirebbero meno tasse.