Negli Stati Uniti biblioteche e parchi pubblici sono chiusi; il 97 per cento dello staff della Nasa, l’agenzia spaziale americana, è sospeso dal proprio posto di lavoro senza busta paga e a tempo indeterminato; il 93 per cento dei lavoratori dell’Agenzia per l’Ambiente non avrà più le risorse per portare avanti i controlli di routine; alla Sec, l’equivalente della nostra Consob, manca il personale per garantire trasparenza e correttezza delle transazioni sulle piazze finanziarie. Non subiranno invece alcun contraccolpo l’ FBI, agenzia chiave per la sicurezza nazionale, l’esercito, l’associazione dei veterani e la polizia di frontiera.
Ottocentomila dipendenti pubblici sono a casa e ad un altro milione è stato chiesto di continuare a lavorare senza stipendio. Sono soltanto alcuni dei numeri e dei nomi di una lunga lista di agenzie, dipartimenti e istituzioni governative americane le cui attività saranno ridotte a causa della parziale chiusura del governo (clicca qui un una lista più dettagliata). Negli Stati Uniti è la fine dell’anno fiscale ed entro ieri repubblicani e democratici avrebbero dovuto trovare un accordo per andare oltre i limiti di spesa pubblica autorizzati e continuare a finanziare le attività del governo federale. Non è stato così. Fino a mezzanotte (sei del mattino ora italiana) le due parti hanno continuato a rimbalzare proposte di legge dalla Camera al Senato e viceversa finendo in un nulla di fatto.
Il sito del Yosemite National Park che avvisa degli effetti dello shutdown del governo federale
Da una parte il Grand Old Party (Gop) il cui “sì” a un accordo sui nuovi finanziamenti è legato al rinvio, di almeno un anno, di Obamacare , la nuova legge sulla sanità americana. Dall’altra Obama e i dem decisi a non cedere ai ricatti dei repubblicani. La verità però , la maggior parte degli analisti sembra essere concorde, è che il partito repubblicano è vittima del Tea Party, un frangia radicale di proto-libertari, la cui avversione per Obama e per la sua riforma sanitaria sono la causa principale dell’attuale situazione. Come sintetizza ironico Edward Luce sul Financial Times «sembrano odiare di più Obama che amare il proprio Paese». Una frecciatina neanche troppo velata alla situazione paradossale venutasi a creare oltre-Atlantico. Perché, nonostante l’attenzione mediatica ottenuta dal Tea Party e dal suo nuovo leader in pectore Ted Cruz, lo stesso giorno dell’inizio dello shutdown del governo federale, è anche il giorno del debutto della nuova riforma sanitaria. Obamacare è infatti finanziata dall’Affordable Care Act e altre leggi non legate al rifinanziamento del budget annuale su cui si è invece concentrata la battaglia politica.
Così a mezzanotte, mentre la Casa Bianca ordinava la chiusura parziale del governo, sul sito della Sanità veniva annunciata l’apertura degli “exchages”, i mercati virtuali creati da Obamacare in cui i cittadini americani possono comparare le diverse polizze assicurative offerte e capire se sono eleggibili per un sussidio federale. La strategia del Tea Party appare dunque del tutto inutile e più fondamentalmente dannosa. Secondo i calcoli di uno studio di Goldman Sachs lo shutdown costerà all’economia statunitense circa 8 miliardi di dollari alla settimana, una cifra non ingestibile per un’economia di 14mila miliardi, ma pur sempre un danno che sarebbe stato meglio evitare considerata la fragilità dell’attuale congiuntura.
Come evidenzia Jim Cramer su The Steet, influente blog economico americano, nel ’95 e nel ’96 durante lo scorso shutdown l’economia statunitense era in pieno boom e Wall Street non si preoccupava più di tanto di quanto accadesse a Washington. Tant’è che il Dow Jones di quel periodo segnò un più 2 per cento e gli interessi sui bond americani a 10 anni scesero dal 7.78 per cento del gennaio del 1995 al 5.65 per cento del gennaio 1996. La situazione di oggi è invece molto diversa. Washington e Wall Street tramite la Federal Reserve (Fed) e una politica monetaria che vale l’iniezione di 85 miliardi di dollari mensili sono legate nelle loro sorti più che mai e ogni incertezza politica si ripercuote direttamente sui mercati. Ne consegue che i tassi di crescita segnati dagli Stati Uniti negli ultimi mesi dovranno essere rivisti al ribasso.
I numeri di IHS Global Insight (nei grafici qui sotto), società di consulenza economica tra le più importanti al mondo, usciti solo qualche giorno fa sottolineavano il miglioramento sia del numero di famiglie formatesi nel 2013 (il più alto dall’inizio della crisi nel 2009 e con prospettive di aumento – grafico numero 1), sia del livello di indebitamento della famiglia americana media (sceso in maniera considerevole dai livelli pre-crisi e previsto in ulteriore forte diminuzione – grafico numero 2).
Prospettive messe adesso in seria discussione. Due milioni circa di persone in più senza stipendio significano un peggioramento immediato dei fondamentali dell’economia, un minor numero di nuove famiglie, un maggior livello di indebitamento e molto più semplicemente meno consumi. Ma nonostante i problemi legati allo shutdown di domani, potrebbe non essere questo la maggiore delle preoccupazioni. Il prossimo 17 ottobre il Congresso è chiamato a votare sul debt-ceiling, l’innalzamento del tetto del debito pubblico, la procedura che permette agli Stati Uniti di far fronte ai propri impegni finanziari.
Il rischio è che la stessa frangia estremista del Tea Party sia tentata di usare il voto come merce di scambio per ritardare l’implementazione di Obamacare. Cornelius Hurley, docente di economia alla Boston University in un’intervista con Linkiesta, spiega che
«i membri del Tea Party sembrano decisi a non fermarsi davanti a nulla pur di fermare Obama e nel loro tentativo passo disposti anche a mettere a repentaglio anche la credibilità del paese».
E quello che è in gioco questa volta non sono 8 miliardi di dollari alla settimana, ma il default degli Stati Uniti sul proprio debito. Se uno scenario del genere si concretizzasse la fiducia dei mercati crollerebbe all’istante, i titoli governativi americani, da sempre considerati una riserva sicura, diventerebbero per Washington più costosi.
Sono proprio i mercati a mostrare i primi segni di preoccupazione. Il grafico sotto riportato (elaborato da Bloomberg) mostra il costo di un credit default swap (CDS) a 1 e 5 anni. Semplificando i CDS sono una sorta di assicurazione che viene acquistata per garantirsi dal rischio di default di uno specifico emittente. Il prezzo a cinque anni è solitamente maggiore di quello a 1 anno. I numeri di Bloomberg mostrano il contrario e questa inversione della curva evidenzia la preoccupazione per un default di breve termine rispetto ad uno di medio periodo. Una prima crisi il Tea Party l’ha già causata, la speranza è che una seconda sarà evitata.
Twitter: @AlbertoMucci1