E meno male che ci sono le larghe intese. Dopo un balletto durato diversi mesi, la commissione Antimafia ha finalmente eletto il suo presidente. L’ha spuntata la democrat Rosy Bindi, superando al ballottaggio il candidato dei Cinque Stelle Luigi Gaetti. Difficile immaginare un epilogo più paradossale. In segno di protesta i parlamentari del Popolo della libertà non hanno partecipato al voto. Il Partito democratico, denunciano i capigruppo berlusconiani, «ha voluto imporre un proprio candidato usando solo la forza dei numeri, senza la necessaria condivisione per una scelta così importante». Risultato: per tutta la legislatura il Pdl non parteciperà ai lavori della commissione. La vicenda è particolarmente imbarazzante. Adesso il Parlamento si trova con un organo parzialmente delegittimato ad operare. E non si tratta di una commissione qualsiasi, ma l’Antimafia. Quella che almeno per buonsenso dovrebbe unire – al di là di ogni differenza di vedute – tanto il centrodestra che il centrosinistra. Nel frattempo montano le polemiche. «Inaccettabile strappo del Pd pur di dare una poltrona a Rosy Bindi» twitta il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri. L’elezione del presidente Bindi è «un colpo inferto» all’esecutivo, denuncia il Pdl Francesco Giro. Di fronte a un simile spettacolo il dubbio è lecito. Ma se non si riesce neppure a individuare un presidente condiviso per l’Antimafia, a cosa servono le larghe intese?