ConflittiPerché oggi in Libia nessuno rimpiange Gheddafi

A due anni dalla morte

A due anni dalla morte dell’ex presidente libico Muammar Gheddafi, il Paese attraversa una fase problematica. Alcuni dati recenti fanno ben sperare in una ripresa economica (alla vigilia dell’estate scorsa, la produzione petrolifera era tornata ai livelli dell’anno precedente), ma l’assetto politico del Paese è ancora fragile. Il 10 ottobre il premier Ali Zeidan è stato prelevato e poi rilasciato dalla Camera dei rivoluzionari di Libia. Mentre lo scorso venerdì, uomini armati hanno ucciso Ahmed Mustafa Albaragthin, colonnello alla guida della polizia militare libica, alle porte della sua abitazione a Bengasi. Appena qualche giorno prima, nel pieno dei festeggiamenti per la ricorrenza religiosa dell’Eid el Adha, un generale dell’esercito, Hussein Hinshir è stato ucciso nella città di Derna. Contemporaneamente, a Bengasi, un colonnello dell’esercito libico, Ambrek Said Fitouri è stato trovato assassinato nella sua vettura. Non solo, per mesi sono proseguiti gli attentati a sedi diplomatiche nel Paese, dopo l’uccisione dell’ambasciatore degli Stati Uniti Christopher Stevens nel settembre 2012.

Eppure, tutto questo non basta per rimpiangere il Colonnello. La morte di Gheddafi ha marcato simbolicamente la fine della Jamahiriyya, il suo «Stato delle Masse», e l’inizio di una nuova Libia, emersa da un complesso misto di rivoluzione popolare, genuina voglia di cambiamento e intervento occidentale. Per la verità, la Jamahiriyya, intesa come chimera fatta di socialismo, anti-partitismo e Islam letteralista (ma moderato) era già finita da tempo. La sua idea di rappresentazione diretta senza partiti si era dimostrata inapplicabile (o per essere più precisi, semplicistica). In 42 anni lo «Stato delle Masse» aveva generato nepotismo, violenze, disoccupazione e malgoverno.
 

Chi era Muammar Gheddafi?

Gheddafi era un visionario, ma non era un pensatore sofisticato né uno statista né tantomeno un teorico politico. Il suo «Libro verde» (che spesso il colonnello paragonava e contrastava con il «Libro Rosso di Mao») era un libricino aneddotico, pretenzioso e impreciso. Durante una prolungata visita in Libia tra il 2006 e il 2008 abbiamo constatato che le assemblee popolari erano costantemente vuote, così come «vuota» era stata la rivoluzione di Gheddafi del 1969. In quel momento, il colonnello e i suoi volevano liberare la Libia da una monarchia manipolata dall’Occidente, ma non avevano idea di cosa la Libia dovesse diventare e sembra che non l’abbiano mai avuta. La Libia di Gheddafi era uno stato le cui politiche cambiavano continuamente, a seconda dei capricci ideologici del colonnello. Prima pan-arabo anti-Occidente, poi pan-africano amico dell’Occidente nella così detta lotta al terrorismo.

La Jamahiriyya era uno stato di polizia governato dalle ansie e dalle insicurezze del suo creatore. In quel contesto, erano tutti spie, tutti cospiratori del popolo, tutti traditori. Gheddafi faceva impiccare gli studenti dissidenti nelle Università. Marxisti, fondamentalisti islamici, mistici sufi, liberali filo-occidentali, Fratelli musulmani, democratici tutti colpevoli, finché i libici non hanno rinunciato a capire che cosa la loro «guida» volesse veramente. Gheddafi è stato ucciso nel 2011, ma era già morto politicamente da anni. Per molti libici non era una guida, ma una strana, incomprensibile creatura.

A due anni di distanza è possibile tirare le somme sulle così dette «profezie» del colonnello. Gheddafi non era un filosofo (anche se si atteggiava a tale nei suoi scritti e nelle sue dichiarazioni), ma difendeva continuamente il suo pensiero e, soprattutto, giustificava la sua presenza come necessaria. Per anni, e particolarmente all’alba della rivoluzione libica del 2011, Gheddafi aveva spiegato all’Occidente che senza di lui la Libia sarebbe collassata in divisioni interne, lotte tribali, scontri tra fondamentalisti.

Tramite le parole di suo figlio Saif, educato alla London School of Economics di Londra, il volto amico dell’Occidente, il colonnello si proclamava baluardo contro l’immigrazione clandestina in Europa: la Libia doveva essere un avamposto di civiltà che controllasse l’eterno flusso migratorio sub-sahariano. Oggi sappiamo che la «nuova Libia» sta affrontando problemi che hanno certamente a che fare con il tribalismo, il fondamentalismo religioso e l’immigrazione. Ma sappiamo anche che il colonnello mentiva.
 

Il colonnello tra tribalismo e fondamentalismo

La Libia ha una tradizione tribale centenaria. Nonostante ciò, le forze anti-Gheddafi sono state capaci di coinvolgere i capi-tribù nel processo di costruzione dello stato. Dal 2011 i capi tribali hanno firmato un serie di documenti pubblici nei quali dichiarano la loro volontà di sottostare ad un’autorità nazionale. Chiaramente i rapporti tra tribù e stato sono tuttora complessi e spesso problematici, ma lo sono sempre stati. Se si esamina la situazione delle tribù al tempo di Gheddafi si capisce chiaramente che il colonnello amava mettere i leader tribali gli uni contro gli altri in modo da giustificare la sua presunta presenza di collante sociale. Per 40 anni, Gheddafi ha limitato la formazione di una società civile libica continuando a fare riferimento all’ethos tribale, usando strumentalmente questo elemento caratteristico della società libica per frammentare il Paese e legittimare il suo potere. E così, la nuova Libia sta ancora soffrendo le conseguenze delle manovre tribali di Gheddafi. Il colonnello era il problema, non la soluzione.

Per quanto riguarda il fondamentalismo è importante chiarire che Gheddafi lo aveva sì combattuto, ma non aveva certo offerto un’alternativa. Molti libici hanno sposato una visione letteralista dell’Islam solo perché questa si offriva come ideologia anti-Gheddafiana. Con le sue imprudenze politiche Gheddafi si era alienato un’intera generazione di giovani libici, adirati perché poveri in un Paese ricco, perché non sapevano che fine facessero i soldi del petrolio. Gheddafi compariva al fianco di Silvio Berlusconi, circondato da decine di giovani donne italiane a Villa Borghese a Roma, seduto tra tende sontuose. I figli del colonnello davano feste leggendarie a Venezia, apparivano ubriachi fradici nei rotocalchi, mentre loro, i libici, non avevano neanche i soldi per comprare casa. Questa rabbia, di cui il colonnello è il solo responsabile, si è incontrata con la diffusione transnazionale del fondamentalismo nord-africano. Gheddafi ha indirettamente allevato fondamentalisti per anni.

In merito alla lotta all’immigrazione clandestina, Gheddafi faceva sì in modo che i barconi non solcassero il Mediterraneo, ma lo faceva respingendo gli immigrati attraverso il deserto. I report di Human Rights Watch e Amnesty International hanno cominciato a documentare questi piccoli grandi esodi correlati da testimonianze di stupri e uccisioni perpetrati dall’esercito di Gheddafi. Viaggi senz’acqua e cibo che riempivano il deserto di scheletri. Il colonnello non aveva risolto il problema dell’immigrazione, aveva solo fatto in modo che i poveracci incontrassero la morte a Sud invece che a Nord.
 

La morte dell’«intoccabile»

La guerra in Libia del 2011 ha costretto Gheddafi a una lotta di posizione che lo ha visto ripiegare lentamente fino alla morte. Di sicuro, Gheddafi si è battuto fino all’ultimo istante. Le prima manifestazioni a Bengasi hanno immediatamente risvegliato antichi rancori occidentali per le responsabilità del colonnello nel caso Lockerbie e in altri controversi episodi della storia recente. La crisi libica ha inoltre fatto subito registrare un incremento dei prezzi del petrolio,e dei gas naturali. La caccia al colonnello era quindi obbligatoria. Quella libica è stata senz’altro una rivoluzione popolare gestita dal Consiglio di transizione, ma con il determinante supporto degli attacchi aerei della Nato, voluti da Francia e Gran Bretagna.

Con la graduale liberazione di tutte le città, controllate dal regime, alla fine dell’estate del 2011 gli unici baluardi rimasti nelle mani di Gheddafi erano Beni Walid, controllata dalla grande tribù Warfalla, e Sirte. A quel punto, la fine del regime sembrava davvero vicina. Con la presa di Tripoli e la visita lampo del presidente francese e del primo ministro britannico, il Paese è passato ufficialmente sotto il controllo del Consiglio nazionale di transizione. Ma la presenza fantomatica di Gheddafi ha tenuto ancora tutti con il fiato sospeso per alcuni mesi. Gheddafi non si è nascosto nel deserto, come molti hanno creduto, ma nella sua città natale, Sirte. Di lì a poco, una delle immagini più cruente della guerra civile libica sarebbe stata trasmessa da tutte le televisioni del mondo: il volto del colonnello sfregiato e sanguinante, colpito da un manipolo di ribelli.

Il colonnello è stato per anni invisibile al suo popolo, una figura intoccabile e lontana. Gheddafi usava guardie, falsi spettatori per i suoi discorsi. Controllava il Paese attraverso corruzione e violenza, scampando a tanti attentati da sembrare immortale. La brutalità con cui è stato ucciso ha chiuso la distanza che lo ha separato dai suoi sudditi per decenni. Nel momento in cui lo hanno ucciso, i giovani libici hanno potuto «toccare l’intoccabile».

A due anni di distanza dalla fine della guerra civile, la Libia sta fronteggiando una serie di problemi, alcuni sono eredità della terribile Jamahiriyya, altri sono nuovi. Non sappiamo come andrà a finire, ma si può essere ottimisti. A due anni di distanza Gheddafi non manca ai libici. Non è possibile perdonare l’efferatezza con cui è stato ucciso, massacrato dai suoi carnefici mentre chiedeva con genuina cecità «che cosa vi ho fatto?». Questa violenza non può essere giustificata, ma può essere capita: l’espressione di un popolo esasperato da un dittatore. Il colonnello ha stremato il suo popolo, lo ha reso carnefice.
 

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