«Ma cosa mi dici, dici mai! Non conosci le cinque regole per prevenire l’influenza?». Lo spiegava Topo Gigio con la sua vocina in famoso spot istituzionale andato in onda nell’autunno del 2009, quando era da poco scattato l’allarme per l’influenza A (H1N1), che minacciava di essere una delle terribili pandemie cicliche nella storia dell’umanità, ma che non si rivelò tale. Una vicenda, quella dell’influenza H1N1, che fece discutere non poco. Per anticipare i virus in partenza ed evitare i danni che una disastrosa pandemia potrebbe arrecare, da anni quindi gli scienziati stanno cercando di “costruire” un vaccino universale, efficace contro qualsiasi tipo di virus dell’influenza.
«Quello dell’influenza è un virus particolarmente interessante – spiega a Linkiesta Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli Studi di Milano – perché rispetto ad altri più complessi – come quello della polio e del morbillo che sono rimasti immutati da quando li abbiamo individuati – cambia ogni anno. Al contrario di questi, infatti, che si replicano con precisione, il virus dell’influenza ogni tanto sbaglia e dà origine a copie identiche di se stesso e altre sbagliate». Un po’ come una cuoca che ogni tanto dimentica qualche ingrediente e su cento torte ne prepara cinque diverse, “sbagliate”, che magari riescono meglio. Così succede con i virus, ogni tanto da un errore di replicazione può uscire una copia migliore delle altre, che poi prende il sopravvento.
Proprio durante la pandemia del 2009 i ricercatori dell’Imperial College London prelevarono i campioni di sangue di alcuni volontari, che furono poi monitorati per le due stagioni influenzali successive. Con lo scopo di capire quali elementi avessero protetto le persone che non avevano riscontrato l’influenza H1N1 quell’anno, e poterli usare come base per un vaccino universale. Quello che è emerso dalle loro analisi – pubblicato in un lavoro su Nature Medicine – è che gli individui immuni ai sintomi influenzali avevano nel loro sangue, all’inizio della pandemia, una concentrazione di cellule CD8 T – un tipo di cellule immunitarie in grado di uccidere i virus – più altro rispetto le persone colpite dall’influenza. Indice che forse un vaccino in grado di stimolare l’organismo a produrre una maggior quantità di queste cellule potrebbe prevenire in maniera efficace gli effetti del virus influenzali. Anche di quelli nati dall’incrocio con virus di origine animale, che si trovano su maiali, polli o anatre, «veri e propri “Frankenstein” costruiti con pezzi di uno e dell’altro, che danno luogo a virus veramente nuovi rispetto al passato, in grado di causare gravi pandemie» continua Pregliasco. «Oltre a sfruttare il principio del caso e della necessità darwiniano, infatti, il virus dell’influenza riesce a cambiare continuamenti anche grazie a questo meccanismo di combinazione».
Il vaccino universale è il “santo Graal” cui da anni aspirano i virologi – come l’ha definito lo stesso Ajit Lalvani dell’Imperial College London, che ha condotto lo studio – e questo non è altro che un tassello in più aggiunto dai ricercatori per arrivarci. «È un lavoro un po’ diverso rispetto a quelli condotti finora – afferma il virologo dell’Università di Milano commentando il lavoro di Lalvani – ed è importante perché chiarisce quali sono gli attori (le interleuchine e interferoni) che si “muovono” nella risposta cellulare immunitaria». Quando l’organismo è “attaccato” da un agente esterno la nostra risposta difensiva si attua su due “fronti”: la risposta umorale – determinata da anticorpi, piastrine e linfociti B – che usa gli anticorpi circolanti come piccole frecce che individuano il virus e lo uccidono; e la risposta cellulare, con i macrofagi e le cellule killer, che si mangiano i virus e i batteri. In genere gli anticorpi sono i primi a partire quando entriamo in contatto con un agente esterno, perciò danno una risposta più immediata, «ma è la risposta più ampia a livello cellulare, con i macrofagi e i linfociti T, a sterminare il batterio o virus che entra nell’organismo. Si tratta di una risposta complementare e fondamentale su cui si è focalizzato questo studio, che ci ha fornito qualche informazione in più su come questa via viene attivata».
Se i ricercatori riuscissero a capire come attivare questa via sulla cui base sviluppare un nuovo vaccino, forse potremmo davvero fare un sospiro di sollievo. Perché significherebbe essere coperti da qualsiasi nuovo virus in grado di scatenare una pandemia. Non si tratterebbe, infatti, di una risposta specifica per quel determinato virus, come quella mediata dai vaccini ora in circolazione, ma di una risposta più generale che agisce a monte. Oggi i virologi si riuniscono due volte l’anno per fare il punto della situazione e stabilire quali saranno i virus che con più probabilità causeranno l’influenza, e sulla base di questa decisione vengono prodotti i vaccini.
I vaccini oggi disponibili, quindi, sensibilizzano l’organismo verso un solo tipo di virus, in modo che quando venga infettato, il nostro sistema immunitario si ricordi di quel virus e reagisca attivando gli anticorpi ed eliminandolo. «Il vaccino non è altro che un’infezione abortita ed è nato proprio in quest’ottica – racconta Pregliasco –nel 1800 Edward Jenner e altri scienziati si accorsero che gli allevatori di bovini non si ammalavano di vaiolo, perché si infettavano con il vaiolo bovino, che era della stessa famiglia di quello umano. Dava un’infezione non grave come quella del vaiolo umano e una copertura crociata contro quest’ultimo. Il concetto della vaccinazione oggi si è migliorato, perché un tempo s’infettavano le persone con il vaiolo bovino, oggi invece che infettarle con il virus vivo e selvaggio, s’iniettano segmenti di virus o virus geneticamente modificati che sono vivi ma indeboliti».
I virus “sbagliati” o “Frankenstein” che tanto ci fanno paura, non sempre sono davvero così pericolosi, e in realtà ci sono sempre stati. In passato però ci accorgevamo solo di quelli che erano capaci di causare gravi pandemie mentre tutti gli altri, che poi finivano per estinguersi da soli senza causare grossi guai passavano inosservati. Oggi invece sono migliorati i mezzi per identificarli e monitorarli, e i virologi spesso si trovano dinanzi al problema di come comunicare questa incertezza: il virus sbagliato o modificato, sarà davvero così pericoloso da causare una pandemia? «Per capire meglio le caratteristiche di un nuovo virus e poter dire con certezza se è un falso allarme o se ci sarà una nuova pandemia, ci vuole tempo» conclude Pregliasco. «Ma nel frattempo bisogna comunicare questa incertezza alla popolazione, e non è facile. Quello che abbiamo adesso è un problema di comunicazione di un rischio che ancora oggi non sappiamo quantificare in modo completamente preciso».
Intanto in Italia, sulla scia di un progetto europeo, è nato influweb, un portale che segnala, a partire dal basso, la diffusione dell’influenza nel nostro Paese. Utile soprattutto per i ricercatori, che così hanno un quadro sulla diffusione dell’influenza in tempo reale e in grado di raccogliere anche informazioni magari sfuggite al medico di base. Può essere anche utile per sapere se nella propria città sta arrivando l’influenza, o vederne il livello di diffusione. A quel punto però, fare il vaccino non ha più senso perché il suo effetto protettivo si esplica solo se effettuato qualche settimana prima dell’arrivo del virus. L’unica cosa da fare, allora, è aspettare e nel caso rassegnarsi a passare qualche giorno a letto con la febbre.
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In collaborazione con RBS-Ricerca Biomedica e Salute
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