Zeman e Veltroni: il trascurato valore dell’avanguardia

Metafore calcistico-politiche

La sosta del campionato di A, comunque esso debba proseguire, ha prolungato di una settimana l’inedita leadership di una pure inedita, convincente e soprattutto convinta Roma; il merito della cui inattesa rinascita spetta certamente al tecnico che solo pochi mesi fa ne ha assunto la guida.

Giunto nel momento probabilmente peggiore in una delle piazze più complicate d’Europa, il francese Garcia (a cui davvero pochi tributano corretta pronuncia – quindi non ispanica – del nome) ha, in tempi rapidissimi, costruito un gruppo capace di stupire per il gioco e soprattutto per la personalità con cui quello stesso gioco viene messo in pratica.

Inevitabili i confronti con chi nei due anni trascorsi, in quella stessa piazza di Roma, ha fallito ogni obiettivo.

Parliamo di Luis Enrique e di Zdenek Zeman: il primo rimasto vittima della prima grande scottatura della propria carriera, il secondo – probabilmente – dell’ultima e conclusiva. Entrambi uomini incapaci di mediazioni, entrambi (lo confesso per dovuta onestà) terribilmente simpatici a chi scrive queste righe, i suddetti hanno perso la propria sfida in modo sensibilmente diverso. Lo spagnolo inseguendo un palleggio da Cantera, e il boemo una profondità da squadra adriatica (le sue migliori e forse uniche veramente compiute) fino all’ossessione. Accomunati, questo sì, da una mania per l’ordine e la disciplina da spogliatoio, che sono stati mancati più o meno nella stessa misura in cui sono stati cercati.

Oltre a sottolinearne spesso proprio l’eccessivo rigore disciplinare, di loro si è detto che giocavano un calcio inadatto (Enrique) o addirittura impossibile (Zeman) per il campionato italiano.

Eppure, non sarà sfuggito a nessuno, Rudi Garcia gioca a zona, con lo stesso identico modulo dei due succitati (il 4-3-3), e passa pure per essere un duro. Certo, se uno riesce dove gli altri falliscono non gli si può che dare atto e merito – e Garcia ne ha di enormi – ma perché non domandarsi se forse (anche solo in minima parte) per il buon inizio del terzo atto della Roma americana non debba tributarsi un piccolo ringraziamento anche a chi, pur senza fortuna, nei due precedenti ha provato a seminare buon calcio e regole?

Non sfuggirà agli analisti più esperti come già una volta Zeman lasciò in eredità alla Roma un patrimonio di schemi, velocità e gioco verticale, cui la prima stagione capelliana attinse. Questo prima delle faraoniche campagne acquisti (che ancora gravano sui bilanci) e delle pochissime vittorie, condite da un gioco di assai scarsa presa estetica. E così pure potrebbe riconoscersi che Enrique ha avuto il merito – davvero non secondario – di ricordare a tutti come il calcio esiga cultura di gruppo, in cui i senatori devono sì guidare i giovani, ma non oscurarli. Meglio ancora ricordandosi che spetta a loro, agli anziani, dare l’esempio.

Sarà difficile, lo comprendiamo bene, che questo riconoscimento postumo venga anche solo contemplato dai tifosi, e ancor più difficile sarà insinuare il dubbio nelle sottili menti degli esperti.
D’altronde, come insegnano i vecchi maestri, agli avanguardisti – specie in politica – non tocca altro che incomprensione, prima, ed oblio, dopo. A volte, diciamocelo pure, l’incomprensione è meritata.

Se ci passate questa metafora, la storia di Zeman assomiglia un poco a quella di Veltroni. Quest’ultimo è stato infatti, in tempi non sospetti, il propugnatore di un’idea di partito a vocazione maggioritaria che oggi altri, con assai meno stile e più spregiudicatezza, e soprattutto con maggior fortuna, sembrano aver fatta propria.

Ma allo stesso modo di Zeman, anche Veltroni aveva le sue responsabilità.

Se poi sia stata una maggior colpa allearsi con Di Pietro o far giocare Tachtsidis e Goicoechea, questo lo dirà la storia. Che, come è noto, viene scritta dai vincitori. Francesi o fiorentini che siano.

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