Angela Ahrendts: Chic & Geek

Il profilo della nuova assunta da Apple

La prima cosa che fa Angela Ahrendts quando termina il discorso di fine anno alla Ball State University (2010), di fronte a quattordicimila studenti in abbigliamento accademico, con il cappello quadrato e il resto, è chiudere il suo mac. Ancora prima di stringere le mani ai rettori sta già infilando il Pro nella borsa. Angela non ha mai sprecato tempo.

Sono passati trent’anni dall’ultima volta che si è laureata lì, a New Palestine, nell’Indiana, in Merchandising&Marketing. Non sappiamo chi tenne il discorso allora, o cosa disse, ma sappiamo che il giorno dopo la cerimonia lei era già in aeroporto, e prometteva alla madre che sarebbe tornata dopo essere diventata la presidente di Donna Karan, una casa di moda al centro di New York. Qualsiasi madre vagamente realistica si sarebbe ragionevolmente arresa e, asciugandosi le lacrime, avrebbe detto addio per sempre alla propria figlia. Le possibilità di una giovane laureanda, proveniente dal midwest, cresciuta passando le giornate tra le riviste di moda, non erano verosimili in una delle città più competitive del mondo.

Ma la determinazione è tutto, come dimostra la Ahrendts.

Nonostante la determazione e la lungimiranza, il suo discorso ha il tono di un leader evangelico (d’altra parte una cresciuta a Nuova Palestina). Un guru con un certo qual senso dell’umorismo: «Quando mi hanno chiesto di parlarvi ho impiegato settimane a leggere i discorsi di Oprah Winfrey, Steve Jobs, politici, accademici e artisti. Ho anche letto i consigli degli esperti: cos’è appropriato, cosa no, come organizzarsi, chi ringraziare; e anche che la maggior parte di voi non ricorderà nulla di ciò che ho detto non appena la canzone di laurea inizierà».

Se fossi stato in uno di quegli adolescenti, non avrei mai capito il motivo per cui quella donna era al cinquantratreesimo posto nella lista di quelle che contano, le 100 Most Powerful Women secondo Forbes. Per venti minuti sintetizza trent’anni di carriera in tre step: valori, sogni, cuore: «Ho scoperto che il cuore è il linguaggio globale che tutti istintivamente possediamo» «Imparate a seguire il vostro cuore, le vostre intuizioni, i vostri istinti» «Avete mai pensato all’impatto di un sorriso o di un semplice ‘grazie’?»  (Davanti a quei ragazzi c’era la CEO di Burberry, eppure probabilmente vedevano solo una bionda cinquantenne che parlava come una chiromante.) Non c’è quasi traccia di quella determinazione, del lavoro duro e dei sacrifici che ha certamente fatto per dimostrare il talento necessario a gestire delle grandi società (Donna Karan, Liz Claiborne/Fifth&Pacific, Burberry). Il Discorso completo qui

Impossibile dire se è eccesso d’umiltà o qualcosa di peggio, ma la Ahrendts motiva il suo successo a piccoli incoraggiamenti, a coincidenze, a segni attorno a lei: «Il primo dei quali fu nella forma di un libro chiamato ‘As A Man Thinketh’». Il libro è di James Allen, 1902, il pioniere dei manuali motivazionali e di self-help. Angela Ahrendts adotta quasi lo stesso stile new age di Steve Jobs, la cui alternativa preferita alla Silicon Valley era il monastero zen. A qualsiasi altra persona non avremmo perdonato un’eccesso di vago e gratuito spiritualismo, ma ai geni tutto è permesso. Siamo magnanimi. La pressione delle scelte a cui sono sottoposti li costringe a sperare in una forza invisibile cui delegano il loro successo o insuccesso. Il confine tra geniale follia e stupidità abissale è più sottile di un qualsiasi Ipad.

Sicuramente al contrario di Steve Jobs è sì una donna determinata, ma umana. Si scusa con: «Mio marito, i miei tre figli, per i numerosi weekend lontana da loro». E capiamo che ha sacrificato la famiglia per la carriera. Poi consiglia agli studenti di: «focalizzare i vostri valori fondamentali, vi aiuterà a capire per quale organizzazione volete lavorare, o con che tipo di persone volete stare, e che tipo di leader volete essere». Lei lo ha fatto. Dieci anni dopo il suo trasferimento a New York riceve una telefonata nel suo ufficio nella Settima Avenue. È la madre: «Congratulazioni, ora sei la Presidente di Donna Karan, quando torni a casa?».

È sempre stata nel mondo della moda. Lo stile di Angela Ahrendts è minimalista, sobrio, elegante. Forse è per questo che nel 2006 la vogliono alla guida del marchio londinese Burberry, dove sostituisce la dimissionaria Rose Marie Bravo (che insiste dopo il primo rifiuto, dicendole: «Un’opportunità come questa non accade ogni giorno a una donna». Accetta). Burberry a quel tempo è associato ai chav (una sottocultura della working class inglese), agli hooligans e a sotto-celebrity di serie B come Daniella Westbrook (conosciuta anche per il setto nasale eroso dalla cocaina). La Ahrendts ripulisce il marchio – grazie al lavoro con il talentuoso fashion designer Christopher Bailey, oggi CEO di Burberry, e a campagne pubblicitarie di Mario Testino – si libera del distintivo plaid nel 90% dei prodotti, e fa guerra alla pirateria. Ma non è tutto. Elimina il 10% del personale, elimina i viaggi di lavoro (fa conference call), elimina le licenze ai negozi che non condividono la nuova filosofia aziendale. Tra il 2009 e il 2010 il valore delle azioni duplica il valore. Passa dai tamarri inglesi e attricette in overdose alle star di Hollywood, persino a Kate Middleton.Infine, Ahrendts dà il via a una strategia di vendita al dettaglio per migliorare il servizio al cliente, quel che lei chiama «l’esperienza Burberry». Una social shopping experience.

Burberry e big data.«Entrare dalla porta è come entrare nel tuo sito web», ha detto Ahrendts. I negozi hi-tech posizionati strategicamente nelle grandi metropoli segmentano il pubblico con l’uso di big data. Il profilo degli utenti è costruito sulla base di ciò che i clienti hanno visto e provato (sono tracciati con tag RFID, con il loro permesso). Secondo Forbes, Burberry ha recentemente lanciato un programma “cliente 360” che invita a condividere le proprie preferenze commerciali via social. Il programma è basato su SAP HANA, una piattaforma in grado di analizzare enormi quantità di dati velocemente. John Douglas, Chief Technology Officer di Burberry spiega che quanto un cliente entra nel negozio e il venditore non solo può salutarlo per nome, ma sa anche cosa consigliargli in base agli acquisti precedenti, ai post su Twitter o su Facebook, e ai trend del momento. 

Angela Ahrendts è una fashion geek. Sfilate in streaming, con modelle che si autoscattano con l’iPhone 5S, commessi che per aiutarti selezionano la tua scheda e sanno esattamente cosa vuoi (e possono dirti in quale negozio trovarla, istantaneamente), personalizzazione intelligente dei prodotti online, maxischermi e connessione social, e possibilità di acquistare beni di lusso tramite e-commerce. Ci sono persino i baci virtuali tramite touchscreen.

La Burberry Experience è quanto di più personale ci sia di Angela Ahrendts: lei sa quanto è importante aver cura di noi. (E ce lo ripete continuamente parlando di energia umana. Quel che tralascia è che il capitale sociale ha valore proprio grazie ai dati tracciati da quei milioni di consumatori) Non sorprende che Tim Cook l’abbia scelta per essere Senior Vice President of Retail&Online Stores di Apple, cioè responsabile delle strategie di negozi fisici e online. La sua expertise nel settore sarà decisiva per sorvegliare la direzione strategica, l’espansione e la gestione dei nuovi punti vendita.

Con Apple è amore da tempo. «Non mi ispiro a Gucci o Chanel o altri» diceva al Wall Street Journal nel 2010, «se c’è una compagnia che rappresenta un modello, è Apple. Sono una geniale compagnia di design che lavora per creare lifestyle, ed è il modo in cui vedo il nostro lavoro a Burberry». Forse aveva già in mente di spostarsi tra i geek fichetti della Silicon Valley. Già quest’estate Fast Company le aveva chiesto se quella del retail nel mercato asiatico fosse la sfida più grande della sua azienda, la risposta fu: «È la sfida di qualsiasi azienda, credo di qualsiasi leader. Penso anche di Tim Cook».

Il problema cinese per Apple va risolto. Il potenziale di crescita dei nuovi mercati, specialmente quello asiatico, è impossibile da ignorare. A marzo le autorità cinesi hanno messo Apple sotto osservazione, accusando l’azienda di comportamenti discriminatori nei confronti dei clienti cinesi  Il problema riguarda la garanzia: ripara i prodotti ma non li sostituisce. Così i media iniziano una campagna in cui criticano il pessimo servizio e definiscono Apple «arrogante». Dopo due settimane Tim Cook pubblica una lettera di umili scuse. Come scrive Bloomberg, le scuse sono un rito di passaggio per tutte le aziende che vogliono entrare nel mercato cinese. Il problema però rimane.

Apple vuole Angela Ahrendts perché ha ricostruito il prestigio di un’azienda, ne ha rafforzato un’esperienza di retail pensando a modellare il cliente, e ha coinvolto i mercati emergenti tra Cina, India e Brasile, moltiplicando le entrate. (Per i negozi che sono stati aperti da almeno un anno, le vendite sono aumentate del 13%, determinate da una forte performance in Asia Pacifico, Europa, Medio Oriente, India e Africa. I ricavi totali sono aumentati del 14% a 1,65 miliardi dollari.) Che è esattamente ciò che vuole fare Tim Cook, così come qualsiasi altro imprenditore nella Valley e altrove.

Angela Ahrendts è la banalità del bene. «Penso che non sono colpevole di nulla, sono colpevole di essere sempre incredibilmente concentrata sul compito a portata di mano. Quindi, ovunque ho lavorato, ho solo sempre cercato di fare del mio meglio, ottenere il massimo, e costruire una grande squadra intorno a me».

E se ripensiamo a quel discorso alla Ball State University viene in mente una delle frasi pronunciate con il candore di chi può permetterselo: «Avete mai pensato all’impatto di un sorriso o di un semplice ‘grazie’?».Tim Cook deve averci pensato quando ha scritto quella lettera al governo cinese.

Il sorriso della Ahrendts forse è la cosa migliore.

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