Anno sabbatico, ecco come “staccare” e girare il mondo

Le storie di chi parte

«Ho fatto un anno sabbatico a Londra. Dopo le superiori non ho passato il test di Architettura e mi sono detto: “Piuttosto che fare una facoltà a caso e senza voglia vado a imparare l’inglese”. Così ho fatto tre mesi in una scuola pubblica come guest student, grazie a delle conoscenze dei miei, e poi due settimane a Tottenham in una scuola di lingua dove ho seguito un programma per passare il First Certificate». Questa è stata l’esperienza di Teti, venticinquenne milanese, prima di tornare in Italia e iscriversi a Scienze dell’alimentazione. 
Eva, tedesca, ha passato sei mesi a Milano come ragazza alla pari. Dopo un semestre in università ha deciso di partire: «Tutti i miei amici erano all’estero, così ci sono andata anch’io». Secondo lei in Germania il gap year è molto comune: «Lo fanno in tanti e per ragioni diverse. C’è chi non sa cosa studiare o non è entrato nella facoltà che desiderava, e anche chi vuole viaggiare». 
In tanti, fra quelli che decidono di prendersi un anno sabbatico, non sono rimasti delusi. Per Teti «è stato l’anno più importante della mia vita perché, una volta tornato avevo un’idea chiara di cosa mi piaceva e cosa no, era aumentata la mia consapevolezza. Impari a relazionarti con persone di culture differenti e a camminare sulle tue gambe. E visiti anche un posto nuovo». 

Moreton Island, in Australia, fotografata da Alessia

Cos’è l’anno sabbatico e quando è meglio farlo

L’anno sabbatico – gap year in inglese – è un periodo in cui si smette di andare al lavoro o di studiare. Per legge possono prenderlo i professori e anche i comuni lavoratori, attraverso l’aspettativa, ma in genere è un fenomeno che interessa i ragazzi alla fine di un ciclo di studi. Se molti genitori lo vedono come una perdita di tempo, praticamente una grande vacanza che comporta spese ingenti e possibili rischi, in molti ne decantano gli effetti positivi sulla carriera. Lo stacco farebbe mettere a fuoco nuovi obiettivi e permetterebbe di aggiornarsi, ma il tutto dipende da come il tempo viene usato. Isabella, ad esempio, ha staccato dopo la laurea triennale alla Bocconi ed è rimasta a Milano. «Ho fatto due stage, per sei mesi: uno al Il Sole 24 Ore nell’organizzazione di eventi e uno da Gucci nel corporate commerciale, entrambi trovati grazie all’ufficio dell’università. L’ho fatto perché avevo studiato il settore e volevo vedere com’era, prima di una specialistica». L’utilità nel suo caso è stata notevole: «Ho cambiato strada e mi sono iscritta a Economia e scienze sociali». 
Il periodo preferito dai ragazzi varia a seconda del Paese. Vitali, statunitense, che ha passato sei mesi in Italia dando ripetizioni, ha unito le vacanze dell’università a un periodo di assenza volontario; Melody, francese, ha preso il suo anno sabbatico mentre già lavorava da giornalista: «Ero freelance e quindi potevo andarmene». Spiega che «in Francia lo fanno in molti dopo il liceo o l’università», e così avviene in genere in Europa, con preferenza per il periodo pre-ateneo soprattutto in Inghilterra (lo fa un maturato su otto). In Italia se si prende è per lo più dopo la laurea e si configura come un’esperienza all’estero. 

Sidney, Australia, fotografata da Alessia

Cosa fare durante l’anno sabbatico

Le attività sono svariate:si va dal viaggio itinerante zaino-in-spalla attraverso un continente – il cosiddetto backpacking – alle missioni in Africa, dai ragazzi alla pari all’apprendimento di una lingua.  Nei paesi anglosassoni esistono siti specializzati in proposte per anni sabbatici comePlanetgapyear; in Italia questo vale soprattutto per le associazioni che propongono un’esperienza di volontariato, come Project-abroad o Gapyear.it, o per quelle legate ai corsi di lingua all’estero (da Ef al British council). Alcuni siti forniscono consigli a chi voglia un viaggio on the road ma in genere ci si organizza da soli confrontandosi con chi l’ha già fatto, anche in rete. 

Pinnacle desert, Australia, fotografato da Alessia

Dove farlo

In questo caso,la prima cosa da fare è scegliere il Paese per capire le regole di permanenza. Ad oggi l’Australia è la meta più ambita: «Pensavamo di andare in America ma un’amica di Philadelphia ci ha detto che era difficilissimo trovare lavoro e che dopo 90 giorni saremmo tornati a casa», spiega Nino, partito dopo la laurea in Ingegneria Civile. «In Australia, invece, per lavorare c’è il visto Working holiday. Anzi, dopo quattro mesi da bracciante lo rinnovano perché hanno bisogno di manodopera. Poi si parla inglese e per noi era l’ideale». Melody, che ha lavorato a Melbourne, si è organizzata con forum come Australian backpackers prima di partire (ma ne esistono di simili per altre destinazioni, come Londra). «A Sidney col mio amico ho distribuito curriculum nei ristoranti – continua Nino –, ma dopo due giorni ci siamo resi conto che devi avere un inglese perfetto per fare il cameriere e quindi abbiamo puntato a fare il lavapiatti e l’aiuto cuoco. Così ho lavorato in un thai restaurant. La paga era buona: 180 dollari netti per una giornata di 11 ore». Altri ragazzi sono stati meno fortunati: Alessandro, ad esempio, ha dovuto contare le persone che scendevano a una fermata della metropolitana.

Bisogna fare attenzione anche alle condizioni necessarie per lavorare. In Australia tutti devono avere il tax file number dell’Inps locale (lo si ottiene in una giornata): «Ti indentifica dal punto di vista contributivo, ma se rimani più di sei mesi puoi ritirare la pensione», spiega Nino. Per trovare un alloggio ci sono siti come Gumtree.com.au: «Ci trovi tutto – dice Vittorio, 27 anni, reduce da sei mesi in Oceania –, dai lavoretti saltuari agli appartamenti in cui condividere una stanza. All’inizio è sempre meglio l’ostello così conosci gente, fai pratica con l’inglese e magari conosci qualcuno con cui andare a vivere». Sia lui che Nino hanno girato la East Coast usando la compagnia di pullman Grayhound, che vende un biglietto cumulativo sola andata. Durante il viaggio hanno lavorato nei campi: l’uno ha contattato personalmente le singole aziende, l’altro si è iscritto al sito governativo che raccoglie domanda e offerta per i ragazzi alla pari. In campagna la paga non è alta come in città: «Nei giorni in cui lavoravi tanto facevi 80 dollari. Abbiamo raccolto zucchine e strappato le foglie delle fragole. La sera non riuscivamo a piegare la schiena», racconta ancora Nino. In particolare consiglia di «stare lontani da Bundaberg: è uno specchietto per allodole per turisti e se finisci lì ti pagano un decimo delle altre zone». Lui e il suo amico, viaggiando in questo modo, hanno visitato quasi tutto il Paese da Darwin ad Adelaide. Per tornare indietro, poi, hanno approfittato dell’offerta di una società di car rental che affittava ai turisti le auto per il coast to coast e aveva bisogno di riportarla al punto di partenza: loro avrebbero avuto la vettura a un prezzo stracciato a patto di essere Sidney nell’arco di una settimana. 

Bilancio

Un viaggio come questo senz’altro arricchisce dal punto di vista umano ma in genere non aiuta a trovare lavoro: Alessia, architetto di Udine che ha fatto la cameriera in Australia, sostiene che sia impossibile inserirsi in uno studio locale se non si è madrelingua inglesi. Soprattutto, e questo è il vero lato negativo, il gap year non è un’esperienza a costo zero: «Siamo partiti con l’idea di non spendere più di 4.000 euro – dice Nino –. A fine viaggio ne ho guadagnati 7.000 e spesi 9.000, considerati i 1.000 euro del volo (il ritorno me l’ha regalato mio padre). Non puoi pensare di tornare col portafogli pieno da questo tipo di esperienza». 

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