Difficile spiegare quello che è tecnicamente successo sul cielo della Sardegna lunedì 18 novembre. Sistemi convettivi, celle temporalesche e altre termini da addetti ai lavori dovrebbero spiegarci che in realtà si tratta di eventi molto particolari che avvengono solo quando determinati fattori capitano simultaneamente. Fortuna o caso, si potrebbe pensare – e sicuramente si tratta di episodi casuali – ma c’è un ma. Uno dei fattori coinvolti nella genesi di questi episodi metereologici è la temperatura dei mari, maggiore rispetto al passato a causa del cambiamento del clima. Se ancora non possiamo affermare che episodi simili siano più frequenti rispetto al passato, possiamo almeno dire che dipendono sempre più frequentemente dalla maggior temperatura dell’acqua del mare. E quindi dal cambiamento climatico.
Cleopatra è stata definita come un «fenomeno possibile ma inusuale», secondo quanto ha riferito Alfonso Sutera, del dipartimento di fisica dell’Università Sapienza di Roma all’agenzia di stampa Ansa. Nata da una bolla di aria fredda dal raggio compreso fra 300 e 400 chilometri, che penetrando nel Mediterraneo ha incontrato altri fattori favorevoli, come l’aria ancora calda e umida del mare e i monti della Sardegna, che hanno entrambi rafforzato il ciclone. «Così come insoliti sono stati i 459 millimetri di pioggia caduti in Sardegna nell’arco di poche ore – continua l’esperto – contro la media annuale di circa 900 millimetri di pioggia che si registra in Italia». Affermazione che non trova d’accordo Mario Tozzi, geologo, e ricercatore dell’Istituto di Geologia ambientale e geoingegneria del Cnr, secondo cui – come ha riferito a Radio Capital – «la quantità di pioggia caduta in Sardegna è eccezionale solo se paragonata a qualche secolo fa, non agli ultimi anni. Sono eventi non più eccezionali ma quasi frequenti, che negli ultimi 20 anni ci siamo abituati a vedere in Italia».
«È difficile quantificare qual è stato l’aumento di questi fenomeni – spiega a Linkiesta Andrea Buzzi, ricercatore presso l’istituto di scienze dell’atmosfera e del clima (Isac) del Cnr di Bologna – proprio perché sono eventi rari. Dal punto di vista fisico sappiamo che l’aumento della temperatura del mare porta a un aumento dell’evaporazione e della frequenza di questi fenomeni. È un ragionamento fisico nato sulla base di osservazioni, ma abbiamo ancora pochi dati per dire con certezza qual è l’effettivo impatto dei cambiamenti climatici. Sono cambiamenti in corso da troppo poco tempo e gli eventi sono troppo rari, per avere un numero di osservazioni sufficienti a costruire delle statistiche affidabili sui dati. La tendenza però mostra un aumento di frequenza e intensità per i fenomeni delle alluvioni, che si verificano, inoltre, sempre più in zone inconsuete e fuori stagione».
Massimiliano Pasqui, ricercatore presso l’istituto di biometeorologia del Cnr, lo definisce un evento estremo per quanto riguarda la pioggia, per l’intensità, cioè il quantitativo molto alto in un tempo breve, e per la vastità dell’aria coinvolta. «Sono eventi tipici di questo periodo, tra settembre, ottobre e novembre – ricorda il ricercatore a Linkiesta – che negli ultimi anni si sono verificati con precipitazioni molto intense, superiori alla norma». Anche Pasqui conferma quanto detto da Buzzi e in un certo senso da Tozzi: «Un elemento interessante è che negli ultimi anni la temperatura superficiale del mare, che fornisce energia a questi eventi, è stata più frequentemente maggiore alla norma, rispetto altri fattori coinvolti».
Insomma, nonostante il discorso sull’impatto del cambiamento climatico in corso sia molto più complesso di così, e non agisca sul singolo evento, è però chiaro che agisce nel predisporre una delle condizioni (la temperatura elevata della superficie del mare) che all’occorrenza facilitano eventi così intensi di precipitazioni. «Le regioni che si affacciano sul Mediterraneo, inoltre, sono quelle più esposte – continua Pasqui – perché sono sistemi che si sviluppano sul mare, dove spesso rimangono senza avere impatto sulle coste e l’entroterra, ma in alcun casi si propagano anche sulla terra. Come è successo in Liguria nel 2011, ma anche a Roma o in Toscana. Il problema però riguarda tutto il Mediterraneo centro occidentale, anche la costa meridionale della Francia e la costa meridionale mediterranea della Spagna».
Col senno di poi ci si chiede se qualche danno e vite potevano essere risparmiati agendo diversamente. Sia Buzzi che Pasqui sottolineano come la protezione civile avesse dato per tempo la massima allerta. Ma è ancora difficile prevedere, in tempo utile, quale sarà la persistenza dell’evento e quale zona precisa sarà colpita. A parità di intensità di pioggia, è la persistenza sulla stessa zona che apporta il danno maggiore. «In Sardegna inoltre il territorio non è stato in grado di assorbire la pioggia perché non è stato mantenuto e curato in questi anni» come ha ricordato Tozzi a Radio Capital. E secondo una rilevazione della Coldiretti, sull’isola circa 306 comuni (l’81% del totale) hanno porzioni del proprio territorio a elevato rischio idrogeologico per frane e alluvioni. «Chi amministra il territorio avrebbe dovuto agire diversamente – continua Tozzi – come per esempio viene fatto in America. A Manhattan quando aspettavano Sandy, io ero lì: in giro si vedevano solo fotografi, giornalisti e polizia. Da noi non è così. Pare che gli amministratori non vogliano mettere in allerta inutilmente la popolazione».
Forse piccole precauzioni avrebbero potuto cambiare almeno in parte gli eventi. «Ma fanno parte di un processo culturale che noi non abbiamo ed è necessario iniziare a diffondere in maniera più pervasiva nella popolazione», conclude Pasqui. «A posteriori è semplice fare delle considerazioni sul perché una persona ha preso la macchina o si è spostato, si agisce anche in base alla paura, ad aspetti emotivi che in questi momenti non sono secondari. Bisogna avere una preparazione di valutazione del rischio, anche elementare, ed è un processo culturale su cui forse val la pena spendere un po’ di più».
Twitter: @cristinatogna
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