«Una mattina ti svegli con la teoria dei gruppi in testa. Inizi la ricerca. Hai più o meno cinquecentomila negativi. Vai a pescare tutte quelle fotografiacce che non hanno alcuna valenza estetica, senza attenzione a luce e composizione, ma che, a distanza di anni, sembrano far emergere una certa logica storica, pare abbiano qualcosa da raccontare. Allora ti metti li, le stampi e fai una mostra». La prima qualità di Enrico Cattaneo, quella che balza immediatamente agli occhi, è il modo del tutto naturale in cui desacralizza quella società dello spettacolo tanto amata dal pubblico, che descrive gli artisti come star e gli eventi come unici, immancabili, irripetibili.
Cattaneo si è formato e ha formato la sua carriera professionale a contatto con i grandi nomi, quelli che oggi sono diventati le stelle indiscusse del grande firmamento della storia dell’arte. Come fotografo muove i primi passi in ambito fotoamatoriale, aderendo prima al Circolo Fotografico Milanese e diventando poi uno dei protagonisti del Gruppo ’66. L’adesione a questo gruppo, che proponeva un tipo di fotografia realistico-documentaria in opposizione alla fotografia artistica, di moda nell’ambiente, lascia già intravedere la propensione di Cattaneo verso una ricerca impostata sulla ricerca di un’oggettività, di una testimonianza.
Nel 1963 avviene il suo fortuito incontro con il mondo dell’arte, proprio durante uno dei suoi tanti reportage tra le vie di Milano, mentre è intento a raccontare il mutamento della periferia milanese, gli scioperi degli operai, il lavoro industriale. Un giorno gli capita di incappare in Corso Garibaldi 89, dove Giuseppe Banchieri, Gianfranco Ferroni e Pietro Leddi stanno dando avvio al Realismo Esistenziale. Non è un movimento, questo, è un incontro tra personalità affini. Sono tutti studenti usciti da Brera verso la metà degli anni Cinquanta, accomunati dallo stesso rifiuto per la nascente società di massa, per l’attenzione al quotidiano e tutti son fortemente influenzati dalle tematiche del neorealismo. Insieme creano un ambiente di scambio e confronto che diventa la Casa degli Artisti, un luogo dove si discute, si crea, si fanno laboratori, dove artisti, professori, professionisti e studenti si incontrano.
L’incontro con l’arte è decisivo per la sua carriera. È grazie a questo incontro che riesce a fare della fotografia un vero e proprio mestiere. Da questo momento in poi Cattaneo diventa un frequentatore fisso delle gallerie. Tre anni dopo inizia a frequentare la Biennale di Venezia. «Dal ’66 a quattro anni fa, non me ne sono persa una, ho fotografato diciassette Biennali», asserisce fumando una MS dopo l’altra, parlando in milanese stretto, mentre il tavolo del suo studio si riempie di negativi, fotografie in bianco e nero, quaderni d’archivio.
È in quegli eventi che Cattaneo diventa protagonista invisibile, celato dietro la sua macchina fotografica che scatta senza sosta. «Quando la gente dice “guarda che bravo quel fotografo, è riuscito a cogliere il momento giusto!” Ma quale carpe diem e carpe diem, il momento giusto per il fotografo non esiste. Scattiamo un centinaio di fotografie per immortalare un sol gesto, tra cento negativi poi vuoi che non ci sia almeno uno scatto degno d’esser visto?». A dispetto del genio artistico e del talento innato millantato dai critici d’arte, Cattaneo descrive un lavoro faticoso e frenetico, in cui il fotografo è sentinella vigile, pronto a scattare – in tutti i sensi – appena scorge una situazione interessante.
La sua opera sfugge da qualsiasi categorizzazione. Non solo immagini di opere d’arte, non solo documentazione, non solo reportage; la sua capacità di far dimenticare ai presenti la sensazione di essere fotografati gli offre l’opportunità di cogliere i momenti più spontanei, quelli che non trovi sui libri né tra gli archivi delle gallerie o dei musei. In quegli scatti emerge tutta la naturalezza che la fotografia da posa non possiede, e che svela intime inclinazioni caratteriali.
Così sul suo grande tavolo da lavoro spunta una foto di Rotella alla Biennale di Venezia del ’97, intento a guidare un carretto da lavoro, con cappellino e maglietta, «che chissà cosa stava facendo lì Mimmo, probabilmente stava trasportando una delle sue opere, sai quelle cose che piacevano a lui, con le pubblicità strappate», Giorgio Marconi ed Enrico Baj a Palazzo Reale durante l’allestimento de I funerali dell’anarchico Pinelli, i due Di Maggio padre e figlio che nella loro galleria durante un’esposizione colgono un momento per farsi un boccone, Andy Wharol che si beve un’aranciata.
Il cronista non bada all’estetica secondo Cattaneo, ma cerca di fare un discorso per immagini, e raccontare una storia. E le sue storie sono evocazioni d’atmosfere, ritratti spontanei, creazioni in corso d’opera che potrebbero aiutare a scrivere un’altra storia dell’arte, parallela e senza retorica, che si serve del materiale d’archivio come di una sceneggiatura per leggere la storia sociale del mondo artistico.
È Cattaneo stesso a ricordare: «Ero dappertutto, come il prezzemolo. Spesso succedeva che mi chiamava l’artista o il curatore e mi diceva “Enrico, cosa fai? Vieni all’inaugurazione che c’è in galleria?” E certo che ci vengo, non me ne perdo una!». Immancabile. Questo suo essere sempre presente lo ha reso al contempo protagonista e interprete di mezzo secolo di storia dell’arte: molte delle sue fotografie sono l’unica testimonianza rimasta di eventi artistici altrimenti caduti nel dimenticatoio.
Grazie a lui, l’esplosione giocosa delle avanguardie dei gruppi Fluxus e del Nouveau Realisme diventano sia documentazione storica che vera e propria testimonianza militante della performance. Ma c’è da ricordare, accanto alla sua attività da cronista instancabile, l’attività da artista: Pagine è una ricerca avviata negli anni Settanta in cui Cattaneo crea sculture fotografiche ottenute dagli scarti di carte sensibilizzate gettate in un cestino dove si sono incollate tra loro, così da creare forme che sembrano libri scompaginati – sembra essere un omaggio a Man Ray, che Cattaneo conosceva bene -, la rilettura del lavoro di Giorgio Morandi o la serie Paesaggi, delicate immagini di squisita bellezza ottenute grazie all’ausilio di agenti chimici fatti colare sulla carta fotografica.
Chiacchierando con lui nella sua dimora che sembra una casa museo, tappezzata di opere di artisti più o meno famosi «non le ho mica comprate sai, me le regalavano», emergono dettagli interessanti sul ruolo del pubblico nell’arte contemporanea. Le gallerie erano – e forse, in parte, sono ancora oggi – destinate esclusivamente a un pubblico di addetti ai lavori. In galleria nessuno passava mai per caso, tutti conoscevano tutti, gli astanti erano artisti, curatori, critici, «alla fine erano tutti amici». Ritrovi mondani, così sembra descrivere quegli eventi passati alla storia in cui in un vernissage trovavi tutti i protagonisti delle avanguardie milanesi. Allo stesso modo, alla Biennale di Venezia, il pubblico generico inizia a farsi avanti solo dagli inizi del 2000.
Il più bel ritratto di Cattaneo è forse quello della caricatura che gli disegnò Maurice Henri, grande pittore e illustratore francese: minuto, con la macchina analogica sottobraccio, il basco e l’immancabile sigaretta in bocca, pronto a tuffarsi in un’altra vernice, così la chiama lui. E si vien subito presi da una nostalgia per un tempo lontano, quando l’inglese non lo parlava nessuno e parole come vernissage e finissage non erano ancora entrate nel gergo, quella stessa nostalgia che si coglie nelle parole degli addetti ai lavori, che oggi hanno una certa età e che sono, più o meno influentemente, entrati a far parte della storia. Si ricordano Milano come una fucina di idee e di protagonisti attivi, una città brulicante di mostre e dibattiti, quando erano tutti militanti, tutti politicamente impegnati, quando l’art system non aveva ancora la pretesa di sostituirsi alla ricerca artistica e gli artisti non erano star, e la loro aspirazione non era essere celebrità da rotocalco.
Grazie a Cattaneo l’arte e gli artisti emergono sotto un altro aspetto: più umano. I suoi aneddoti divertenti celano sempre delle piccole verità, così come le sue fotografie, basta saperli cogliere. «Vedi questa foto qui, questo è Lucio del Pezzo, tutto elegantino, in una mostra qui a Milano. Qui si era seduto su una scultura del Ceroli. E senti subito qualcuno esclamare “Oh! Ma che insulto all’opera d’arte! Che insulto all’artista!” Ma quale insulto e insulto, è del legnaccio questo qui».
Caricatura Enrico Cattaneo, di Maurice Henry, 1971
Crediti:
1 (Ritratto di Enrico Cattaneo), 4 e 5 (Lo studio di Enrico Cattaneo, a Milano) © Barbara Barberis
2 (Spoerri, Restany, Christo, Studio S. Andrea, Milano 1970) e 3 (Mimmo Rotella, Biennale di Venezia, 1997) © Enrico Cattaneo