Dietro le quinte di “Masterpiece”: più talent o show?

“Questa è la storia di una sconfitta”

Stai leggendo su Linkiesta la prima parte dell’articolo su Masterpiece, e prosegui scrivendo la seconda in prima persona (anzi, seconda), avendo ben presente che una delle due regole per essere italiani l’hai rispettata: avere un conflitto di interessi (l’altra è, citando il dottor Fibra, «imparare a perdere tempo»). Salva anche la regola base dell’italico giornalismo: essere autoreferenziali. Sei il primo concorrente della prima puntata della prima edizione dello show letterario di Rai 3 (ma anche infiltrato speciale per Linkiesta). Avevi mandato un video di presentazione durante la canicola di agostana in smoking di lana, dai 5mila candidati eri passato ai 500 selezionati, e sei finito tra i 72 concorrenti.

Ma questa, è la storia di una sconfitta.

Risali a Torino sempre a spese tue, è l’ultima volta, ti scrivono dalla regia, ma potrebbe anche essere l’ultima volta che devi salire: porti L’amore prima di far l’amore, romanzo di deformazione ero(t)ico con cui non hai esordito nel 2011: 25 anni di amore e dolore per pensarlo, 3 anni per scriverlo, 2 anni per rivederlo e proporlo agli editori, un anno di depressione per riprenderti (o riperderti), 5 mesi e 4 selezioni con Mondadori senza conoscere nessuno, e poi, la fine. Ne aveva parlato anche Vincenzo Mollica a uno spaesato Roberto Vecchioni in una videochat del Tg1del 21/2/2001 dal Festival di Sanremo che avrebbe vinto, e infatti non gliene fregava niente.

Mentre sali, speri di aver scritto un romanzo difficile ma che aiuterà le persone che non ce la fanno, in questa contemporaneità, a sentirsi meno sole e più solide, una storia acronica, atopica e atipica inattuale, che non si nasconde dietro a tutti quei dialoghi tipo Andrea De Carlo, che non è un giallo con gli omicidi, le sparatorie, il sangue, tra cronaca e serie tv come i libri di De Cataldo, che non parla di un luogo preciso di moda tipo l’Africa sulla scia della Kyenge, tipo l’unico libro della Selasi, che non conosci. No, niente di questa roba: i giurati sapranno capire il coraggio, medaglia civile al valor letterario (Benni)! Poi scopri i nomi della giuria: Andrea De Carlo, Giancarlo De Cataldo, Taiye Selasi e pensi che forse il talento per diventare scrittore non l’avrai, ma la caratura sì: avere sfiga. Ricordi che dopo i colloqui alla Rai di Torino comprasti, in uno dei chioschi librai di via Po, proprio un romanzo di De Carlo, edito nella città sabauda, e pensi che se solo avessi comprato Il Castello, in giuria a quest’ora ci sarebbe Franz Kafka.

In Rai, ripercorri i corridoi dove hanno esordito i tuoi romanzieri di riferimento: Francesco Nuti, Carlo Verdone e Calimero, che seguivi da bambino a Big!. Ti sei preparato la pagina che dovrai leggere, scegliendo quella giusta dopo ottavi di finale, quarti, semifinali, finale terzo posto, spareggio. Sei finito in uno stanzone con gli altri 11 concorrenti della puntata, vorresti parlarci, ma ti comunicano che hanno cambiato la regola in corso d’opera: non più una pagina, ma dieci righe. Alla faccia della dignità autorale. Cerchi di sceglierle alla rinfusa copiando pure dai manoscritti altrui, quand’ecco che entra il presentatore, Massimo Coppola, vestito come a un matrimonio se fosse Fabio Fazio (infatti, lo stilista è lo stesso). Era uno dei tuoi comici, attori, showman, vj preferiti, quando presentava trasmissioni con dignità letteraria su Mtv tu andavi al liceo e pensavi: “Quando avrò la sua età farò cose altrettanto belle come lui”.

Sei arrivato alla sua età, e sei finito a fare il concorrente di un talent che continui a credere un reality senza capire la differenza. È una specie di Caronte: quando arriva da te, significa che sei morto, la signorina Masterpiece entra, chiama il tuo nome e vai dove nessuno sa. E nessuno tornerà più a raccontarti cosa ha vis(su)to. Vorresti guardare Coppola in azione, ma devi inventarti dieci righe da leggere in pochi minuti. Vorresti scegliere le righe da leggere, ma poi alla fine guardi Coppola in azione. Arriva da te, capisci che è il tuo momento e con i consueti scongiuri poco letterari parli con quello che, essendo il coach della trasmissione, coerente col suo ruolo cerca di incoraggiarti, ammortizzare l’insicurezza e aumentare l’autostima di chi scrive, con innegabili risultati: «Questo libro mi sa che fa schifo, cosa sono questi giochetti con le parentesi, cosa sei Enrico Ghezzi, basta!». Ricordi, lo avevi scritto immaginando la sua Isbn edizioni come una casa editrice ideale. Ma in trasmissione va in onda l’aspetto più umano, meno compromesso da sé stesso, e più votato all’ascolto e alla valorizzazione dell’altro. Meritoriamente. È arrivato il tuo momento, e saluti Coppola che in quello che non è andato in onda, più che un coach sembrava un angelo. Sterminatore (quindi, adorabile).

Ti conducono in un ascensore con le saracinesche e senza porta, dove fingi due o tre volte di entrare, uscire, camminare: all’interno, una catena da prigionieri attaccata non depone a favore delle prove che temi di dover affrontare come aspirante scrittore. Gli autori televisivi ti incoraggiano, «te sei forte, vai tranquillo, daje daje daje» ma avendo fatto anche il loro mestiere sai che potrebbe essere una bugia e sai che se ti danno del tranquillo, gli farai causa. Pochi secondi per passare dal buio del magazzino alla luce dello studio, e davanti a te c’è uno che crede di essere De Carlo, uno abbigliato come De Cataldo e una che non conosci: è la Selasi. Alla fine le dieci righe non le hai scelte, anche perché avevi scelto una pagina come da accordi, quindi leggi saltando da una pagina all’altra alla meno peggio. Un robot ti passa davanti come se fosse normale. Parla De Cataldo, e avere in giuria un magistrato è come fare l’esame della patente con il ministro dei Trasporti: legge una cosa che parla del tuo romanzo come una «palingenesi», e ti chiedi se è possibile che tu abbia usato una parola come «palingenesi» a proposito di qualcosa che hai scritto. No, infatti, lo ha scritto lui anche se qualcuno non l’ha capito. Ti dice che il cane parlante, Ispido (il vero eroe del romanzo), è in realtà il cane di Calvino. Replichi che non è di Calvino, ma è il tuo quasi quindicenne cane (al secolo, il cane X), anche se Stefano Benni anni fa se ne appropriò all’Università di Bologna (non è l’unico cane ad avere avuto una cattedra accademica).

De Carlo dice che il tuo romanzo è irritante, disgustoso, provocatorio, scritto molto bene, e legge a sorpresa alcune righe: la scrittura è spudorata, e chi la scrive è pudico, e risentire quelle parole ti fa arrossire, perché si scrive anche per timidezza. Ti chiede come mai c’è questa ossessione per il sesso: lo pratichi poco, e lo immagini tanto, ecco perché. La Seyasi, arrivata in Italia da due mesi perché non ha trovato casa a Parigi (quindi la persona più indicata per valutare romanzi italiani), ti chiede cosa fai nella vita. «Soffro», provi a rispondere perché è così in questo periodo. «Ah io sono hard», ti risponde, non conosce la parola e pensa tu abbia detto che sei soft. Capisci di essere caduto in un discorso molto pericoloso e dribbli. Del romanzo ne parlano tutti male, tu ti esalti e pensi “Ma sì, fa cagare!”, tanto ormai… si passa almeno con due sì ma a sorpresa ottieni tre sì all’unanimità, il massimo. Vai via ringraziando, gli autori ti stimolano a gioire ma pensi semplicemente che avrai l’opportunità di scrivere, farti conoscere, fare un bel reportage per Linkiesta, provare a uscire dalla stanza della tua anima.

Ti festeggiano tutti, e ti stimolano a commentare la vittoria come se avessi vinto il morigerato premio finale (una tiratura da 100.000 copie edite da Bompiani e Rai-Eri, il Salone del libro, il libro allegato al Corriere della Sera, a cui si aggiungeranno certamente la candidatura come premier, la nomina a senatore a vita, la conduzione del Festival di Sanremo, una mountain bike con cambi Shimano, un set di pentole in topless e ragazze in acciaio inox – o viceversa -, un viaggio alle Maldive, l’immunità parlamentare, la beatificazione in diretta da Fabio Fazio, la santità, l’immortalità) e la dedichi alla mamma che non ha capito, alla ragazza che non ha voluto o saputo, tanto la prova è superata all’unanimità. Soddisfatti di aver ottenuto la tua soddisfazione in video, l’autrice ti comunica che sì la prova l’hai superata col massimo, dai 72 sei tra i 36 finalisti, però potresti essere eliminato per la stessa, perché i posti sono 24, nella puntata da 12 siete rimasti in 6, e ne passeranno 4. Capisci che ti esprimi con le parole perché non sono numeri. Ma tanto è passi, secondo gli autori, vai forte, hai preso il massimo, l’unanimità, che ti preoccupi. Daje daje daje.

Mangi alla mensa Rai dove, al solito, tutto costa molto meno che fuori, e ti richiudono nello stanzino con gli altri cinque finalisti. C’è chi propone di scambiar i romanzi da leggere: siete in due, tu e Lilith, con cui vi scambiate le e-mail e che non vede l’ora di andare via. Ma c’è anche la corista di Red Ronnie che l’importante è apparire in tv, e non vuole essere squalificata e farti leggere il suo libro perché sarà un successo, c’è la bancaria gentilissima che abita nel centro storico di Venezia, a Rialto, e tu non pensavi nemmeno fosse abitabile, c’è l’asessuale, ma a differenza dei tuoi ultimi mesi, sembra che la sua sia una scelta, c’è chi porta il proprio dolore in una faccia bellissima meglio di come lo camuffi tu. Ti richiamano nello studio, la giuria ti guarda dalla hall della sala dietro una vetrata. De Cataldo fuma il sigaro. Il direttore di Rai 3, il giornalista Andrea Vianello, segue con attenzione professionale e appassionata dalle quinte. L’autore televisivo ti dice che se passi, devi ostentare felicità e ridere, ridere e se non passi, devi mostrare il dolore, e piangere, piangere. Chiedi a un operatore lui che fa: «Intervisto gli eliminati». Ah, ecco il becchino. Daje Daje.

È il tuo turno, gli autori mimano un “Daje! Hai avuto tre sì tanto” ma i primi due passano (evviva) e per la logica televisiva dell’alternanza scuola Carlo Conti (Per te Miss Italia continua, per te finisce) essendo il prossimo sai già che sarai eliminato: e infatti sei eliminato. Al romanzo, dice la giuria, manca sincerità. Ma tu sai che la massima parte di quello che è scritto l’hai vissuta sulla tua persona, ma non lo avresti detto mai, perché non deve essere un reality letterario, il tuo manoscritto. Dalle stelle alle stalle in poche, ore, il giogo televisivo (con la g) è una metafora dell’effimero. E siccome passa anche chi ha avuto meno voti di te, che tutto questo sia una metafora televisiva del Porcellum elettorale: chi ha preso più voti…perde. Ripensi a Calimero, che una Rai non lottizzata a quest’ora avrebbe promosso a direttore della sede di Torino: ”Che maniere! È un’ingiustizia!”. Ma è solo per il dispiacere doloroso del come: la stessa prova che ti ha dato il massimo dei voti, l’unanimità, ti ha anche eliminato senza ulteriore prova esperire a scremare: una contraddizione. E non ti sei potuto esprimere. L’autrice ti intervista, i giudici non ti hanno capito, cosa gli vorresti dire, cosa gli vorresti fare, li odi?. E tu invece sei solo onorato che De Carlo, De Cataldo (la De Seyasi merita un De ad honorem) ti abbiano letto, sei solo grato, li vorresti abbracciare: solo che, come a volte capita, hanno affrettato un giudizio errato, perché il romanzo è sincero e tu lo sai. E tu lo sei, ma è difficile e anche tu lo sei. Ma loro non lo sapranno mai. Ne passano 24, sei arrivato 25esimo su 5mila. Daje.

Esci, a un passo dalla fase successiva, finalmente spesata e creativa: esci e piangi, sfogando ore ed ore di tensione, capisci le miss italie che dopo ore ed ore di stimoli, attese, tensioni, autori, televisioni e sorprese piangono, capisci Tenco a Sanremo, ti vergogni di esistere, e di resistere. Non pensavi. Invochi i ripescaggi, il televoto, vuoi ricusare col legittimo sospetto la giuria, trasferire la commissione a La7 dove sono più sereni, ma è un tele-vuoto quello che hai. E pensi che magari, se anziché 100.000 copie e il Corriere della Sera e il Salone al primo ci potesse essere una gradualità, ti accontenteresti di 500 copie edite presentate a Pescocostanzo, e allegate al Corriere Cesenate.

Ma senti affetto attorno a te da autori che dovranno spegnerti, e una grande cura nel valorizzare il linguaggio, e non il linciaggio. Prima dell’eliminazione, si ricorderanno di te persone che avevano cancellato il tuo numero e riceverai più sms e telefonate che nell’ultima settimana. Dopo, meno. La visibilità è il vero ammortizzatore sociale. Aspetterai un Mastersex, o un Masterlove, invano.

Rivedendoti in video ti sembrerai imbarazzante, ti renderai conto di quanto soffri, parli che non si capisce niente perché piuttosto che farti cannibalizzare ti mangi te stesso, cioè le parole, e di quanto sei brutto (o diversamente bello). Rivedendoti con gli altri, capirai che è un Mastereparto psichiatrico, la trasmissione, o la vita. Una testata ti darà del segaiolo, e ridi perché infatti la leggi ogni giorno (e gli avevi pure inviato il curriculum, invano) ti intervisterà il Corriere della Sera locale e tu pensi che avresti voluto farle tu le interviste, su quel giornale. Capisci che i tempi ipotizzati da Wharol, sul quarto d’ora di celebrità, vanno ridotti: bastano due minuti in onda. Poi fra qualche ora tutto sarà dimenticato, e chi si è visto si è visto, e il tuo libro, mai pubblicato. E finisci il pezzo per Linkiesta e ti manca il finale, e come un fanale, l’illuminazione: se qualcuno volesse pubblicare o leggere L’amore prima di far l’amore, l’indirizzo email è [email protected]. Le immagini invecchiano, lo sai. Ma in fondo le parole non muoiono mai.

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