Fallimenti, ecco il vero spread dell’Italia

La lunga coda della recessione

Negli ultimi cinque anni si è parlato spesso delle banche fallite, degli istituti di credito salvati, delle società finanziarie sullorlo del collasso. Ma oltre alla finanza cè di più. Leconomia reale soffre. Soffre in Italia più che nel resto d’Europa. Ed è per questo che è utile fare un paragone sulle cause dei fallimenti, delle società che hanno chiuso del tutto la loro attività e non lhanno mai più ripresa. L’orizzonte temporale preso in esame sono gli ultimi cinque anni, dal 2008 alla prima metà del 2013. Ciò che emerge è che in Germania i fallimenti sono stati circa 150.000. Il doppio in Francia, con poco più di 300.000. Più del triplo in Italia, con oltre 530.000 imprese defunte negli ultimi cinque anni. Numeri che spaventano ben più dello spread. 

Altro che immune alla crisi. Parigi combatte una quotidiana guerra. In Francia le imprese fallite, secondo l’Insee, sono state 61.294 solo nel 2012. Un numero che però non rende giustizia a un fenomeno che sta tornando a essere sempre più pesante. Nel 2013, secondo le stime del Crédit Agricole, si supererà quota 62mila, riportando i valori vicino al record fatto segnare nel 2009, quando le imprese fallite furono 63.395. Nei cinque anni di crisi presi in esame, solo in un anno, nel 2011, non ci sono stati più di 60mila fallimenti allanno. Vale a dire che dal 2008 al 2013 le imprese transalpine a portar i libri in tribunale dovrebbero essere circa 312.000, con un incremento del 12% rispetto ai cinque anni precedenti. I calcoli del Crédit Agricole, uniti a quelli dell’Insee, lasciano intravedere uno scenario di difficoltà significativa anche per i prossimi due anni.

A far morire le imprese francesi ci sono due fattori su tutti. Da un lato, come rilevato dallistituto di statistica transalpino, ci sono i problemi legati al calo della domanda mondiale. Nel 35% dei casi, infatti, le imprese hanno dovuto dichiarare fallimento per mancanza di ordini. I settori più colpiti sono stati due su tutti: real estate e manifattura. Il picco delle bancarotte nel primo settore è avvenuto nel corso del 2009, dopo il crac di Lehman Brothers e la contrazione della domanda di abitazioni. Proprio come in Italia, anche in Francia si è sofferto per la mancanza della liquidità. Il 22% delle società ha dichiarato di aver avuto problemi con l’erogazione di prestiti da parte delle banche. In altre parole, il credit crunch ha avuto significative ripercussioni anche in Francia. Tuttavia, non cè solo questo. Il 18% delle imprese transalpine, riporta lInsee, hanno avuto problemi nei rapporti con la Pubblica amministrazione. Fra crediti non esigibili o ritardi nei pagamenti, anche nel caso di Parigi, proprio come per lItalia, ci sono difficoltà a vedere ripagate le proprie prestazioni. 

La situazione va meglio in Germania. Nonostante Berlino sia considerata la locomotiva d’Europa, i problemi esistono ancora, ma si tratta di effetti della recessione mondiale, prima, e di quella della zona euro, dopo. I dati della Destatis, l’Istat tedesca, non sono positivi, ma sono migliori rispetto al resto dell’eurozona. Nel 2012 i fallimenti sono stati 28.297, in calo rispetto agli anni passati. Infatti, per la prima volta dal 2008 si è scesi sotto quota 30.000 fallimenti per anno. Nel 2008 furono circa 31.000, nel 2009 poco più di 35.000, nel 2010 iniziò il declino a quota 32.000, valore sceso di mille unità lanno successivo. Tuttavia, la situazione è destinata a diminuire ancora. Per i primi sei mesi del 2013 le richieste di fallimento sono state 13.253. E secondo la Destatis nella seconda metà dellanno in corso il valore dovrebbe essere di poco superiore alle 10mila domande. Nel complesso, dal 2008 a oggi le imprese tedesche fallite sono state circa 150.000, assumendo per valide le stime Destatis. 

Nella maggior parte dei casi, evidenza Deutsche Bankle imprese tedesche fallite in questi cinque anni rientrano nel settore manifatturiero o siderurgico  Interessante anche la performance dei fallimenti delle società real estate  che sono il 16% del totale, in aumento negli ultimi tre anni. Riguardo ai motivi, il calo della domanda globale, e quindi la mancanza di ordini, la fa da padrone, con il 55% delle imprese costrette a portare i libri davanti al giudice fallimentare per questo motivo. Quasi irrilevanti i problemi fra impresa e Pubblica amministrazione, mentre in notevole calo sono i collassi dovuti alla mancanza di liquidità. «Il credit crunch ha pesato in Germania, ma solo in minima parte»  spiega Deutsche Bank. Anche perché «le imprese tedesche hanno una cultura più evoluta, che le porta a cercare risorse sul mercato nel caso i principali canali di finanziamento siano chiusi». Traduzione: se la banca non eroga un prestito, meglio effettuare un’emissione di obbligazioni corporate invece che chiudere. 

Infine, il nostro Paese, che sta vivendo un dramma senza fine. In Italia, dal 2008 ad oggi, sono fallite 60mila imprese. Lo sostiene Cerved Group, la business unit che valuta la struttura economico-finanziaria e l’affidabilità delle aziende. Tuttavia, bisogna fare attenzione. Il dato fa riferimento alle sole dichiarazioni di fallimento, che riguardano le imprese con certe dimensioni rispetto al volume di debiti accumulati, all’attivo patrimoniale o ai ricavi realizzati nei tre anni precedenti alla procedura. A queste si affiancano 10mila imprese che prendono accordi con i debitori per il parziale rimborso del debito o avviano altre procedure d’insolvenza diverse dai fallimenti. Le liquidazioni volontarie, invece, sarebbero 463 mila. È questo infatti il dato che conta, più alto che in Francia e in Germania. Totale? 533mila imprese morte in cinque anni.

Dallo studio emergono due dati preoccupanti. il primo è che, dopo la comprensibile ondata di chiusure nella seconda metà del 2008, all’inizio della crisi, i numeri hanno continuato a crescere, dimostrando che la recessione non è conclusa. Un altro studio, della Camera di Commercio di Monza su dati Registro Imprese, stima 6.500 nuove procedure fallimentari nel primo semestre del 2013, con un aumento del +5,9% rispetto allo scorso anno. La crisi colpirebbe in più della metà dei casi aziende giovani, nate tra il 2000 e il 2009; sarebbero però in aumento anche gli effetti su realtà con oltre 50 anni di attività alle spalle: dal 2008 al 2012 avrebbe chiuso una azienda storica su 4, contro l’uno su 5 degli anni precedenti. 

Il secondo dato inquietante riguarda le cause della mortalità aziendale. Secondo il Cerved, se nella prima parte della recessione (2009-2010) le imprese chiudevano per la mancanza di ordini, adesso è soprattutto per i crediti inesigibili e per la restrizione del credito. Sulla questione la Cgia di Mestre, che riunisce artigiani e piccole imprese, sottolinea in particolare il ruolo del debito della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese. «È verosimile ritenere che ammontino a circa 120 miliardi di euro», dichiara il presidente Giuseppe Bortolussi, pur riconoscendo degli sforzi governativi in tal senso: «Vuoi per gli effetti della nuova legge nazionale entrata in vigore dal primo gennaio di quest’anno che ha recepito la Direttiva europea contro i ritardi dei pagamenti, vuoi perché nel Paese si è diffusa una certa sensibilità nei confronti di questo problema sta di fatto che la Pa italiana paga i propri fornitori con maggiore celerità. Questa è un’inversione di tendenza importante – conclude –, ma non ancora sufficiente».

Il Cerved segnala poi un altro fenomeno in aumento nel 2012, quello delle liquidazioni di aziende col bilancio in attivo. La colpa sarebbe delle basse aspettative di profitto, ma lo studio non chiarisce se queste società chiudano in Italia per aprire all’estero oppure se semplicemente escano dal mercato. Non esistono dati aggiornati a cura dell’Istat, quindi si può solo fare una stima con quelli privati, come quelli di Cerved. È quindi possibile che i valori totali, quelle 533mila liquidazioni dal 2008 a oggi, possano essere ancora maggiori. 

La carenza di ordini, una burocrazia tanto pesante quanto vincolante, un fisco eccessivo e un credit crunch sempre più spinto. Sono queste le ragioni che stanno spingendo gli imprenditori italiani ad alzare bandiera bianca di fronte alle difficoltà. Specie sull’ultimo fronte, quello delle condizioni di accesso ai finanziamenti bancari, è evidente il gap fra Roma, Parigi e Berlino. In Italia, infatti, le imprese si finanziano a 200 punti base sopra le corrispettive tedesche e francesi. Uno squilibrio rilevante. E quando la Banca centrale europea ricorda ai policymaker europei che persiste la rottura del meccanismo di trasmissione delle politica monetaria, intende proprio questo. Il premio per il rischio-Paese pagato dalle imprese italiane è ingiustificato dallattuale liquidità esiste sui mercato dell’eurozona. Pesano invece le ragioni di sempre, dal fisco a un assetto normativo che, invece di aiutare le imprese, le penalizza.

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