Festival del cinema tra bilanci in rosso e campanilismi

Dopo Roma e Venezia, tocca a Torino

Dopo Venezia e Roma, anche Torino ha il suo film festival. Per una settimana, dal 22 al 30 novembre, studenti, turisti e appassionati di ogni genere potranno godersi le 185 proiezioni nelle sale messe a disposizione dalla città della Mole.

La rassegna parte sotto i migliori auspici e qualche polemica: il direttore Paolo Virzì non si è lasciato sfuggire l’occasione per punzecchiare la “concorrenza” del Festival Internazionale del Film di Roma, che già gli aveva sottratto l’anteprima del film di Pif (La mafia uccide solo d’estate). «Quando voi vedete Scarlett Johansson che sfila sul red carpet romano – ha dichiarato il direttore artistico di Torino – dovreste metterle anche un cartellino del prezzo. Dovreste vedere, lì che cammina, una “cosa” che sta tra i 400mila e i 600mila dollari. E sappiate che sono banconote pubbliche». Ovviamente si tratta di spese di accoglienza, non di cachet, ma poco importa. «Noi a Torino non abbiamo questi costi», precisano dall’organizzazione.

Un confronto – o uno scontro – tra le due manifestazioni è inevitabile, data la vicinanza (le separa una settimana) e le reciproche ambizioni. Ma lo stesso problema, a ben vedere, c’è anche tra Roma e Venezia: il sorriso della Johansson sapeva di déjà-vu dopo averlo visto tra le gondole, due mesi prima, e più critici hanno fatto paragoni, parlando di rinuncia capitolina a «insidiare» Venezia per problemi di politica e budget (vedi Cappelli e Mereghetti, Corriere della Sera dell’8 novembre).

Di fronte a questo vien da chiedersi: i festival del cinema, in Italia, sono troppi? Contando anche le manifestazioni minori, dovrebbero essere in tutto almeno 185: lo dice una ricerca dell’università Iulm per Afic, l’Associazione dei film festival italiani. Le tre già nominate, però, restano le più famose anche all’estero, dove forse vengono gerarchizzate in maniera ancor più decisa che in patria: il Guardian, ad esempio, anche quest’anno ha dedicato alla rassegna del Lido una serie di articoli, mentre uno solo su Roma e l’articolo più recente su Torino risale a due anni fa (edizione in corso esclusa). Di certo, comunque, le polemiche che nascono tra i film festival non offrono un bello spettacolo.

Qualcuno si sarà anche chiesto perché per l’Italia non c’è una sola manifestazione di caratura mondiale, come Cannes o Locarno. Secondo il critico Roberto Escobar la risposta è la solita: «Per campanilismi, provincialismi, miopie culturali». Dal punto di vista di Escobar, poi, dell’ottava edizione di un festival di Roma così non c’era gran bisogno: «Il festival di Torino a me sembra serio e interessante, certo ben più di quello di Roma». Inoltre quest’ultimo, nato dopo gli altri due, «non ha mai insidiato il festival di Venezia, l’ha solo disturbato». Di certo nella capitale si sente la ricerca dell’audience, che sarebbe il vero motore della svolta “popolare” voluta dal sindaco Marino e che non è esente da critiche. «Non ho nulla contro il cinema popolare, anzi è la condizione essenziale per avere un buon cinema, anche d’autore. Ma che il cinema popolare abbia bisogno di un festival è opinabile», continua Escobar.

Al di là di criticità delle singole rassegne, per l’immagine italiana rimane il problema della vicinanza temporale che svilisce le più ambiziose e che non accenna a essere superata da un cambiamento organizzativo: «Per ora non si è pensato di posticipare il festival», dicono a Torino. A Roma non aprono nemmeno il capitolo. D’altronde, cambiare date è dura anche per rassegne minori come il festival del cinema di Milano, che quest’anno si è accavallato a Venezia: «A poco a poco si è avvicinato alle nostre date», spiegano dall’organizzazione, «e se da un lato questo comporta dei problemi alla copertura della stampa dall’altro per noi è difficile pensare di spostare il festival senza creare sovrapposizioni peggiori ad alte manifestazioni italiane e internazionali».

Per non pestarsi i piedi, dare un forte valore identitario alle rassegne cinematografiche sembra l’unica soluzione. «A parte Venezia, come auspicabile punta di diamante tra i festival italiani, credo che la strada giusta sia proprio quella della specializzazione», prosegue Escobar. «Basta ricordare l’altissima qualità delle Giornate del Cinema Muto, a Pordenone».

La battuta di Virzì ha aperto anche il capitolo costi, già dolente per ogni manifestazione e ulteriore incentivo al ridurne il numero. Il presidente dei docenti di Cinema delle università italiane, Gianni Canova, ritiene ad esempio che le rassegne di Roma e Venezia siano un doppione: «Due festival così sono troppi, personalmente destinerei parte del denaro utilizzato per promuovere meglio il cinema italiano. La trovo una logica di sperpero». La ricerca Iulm che ha condotto per Afic sottolinea infatti come i bilanci dei festival raramente guadagnino dai biglietti venduti al pubblico: nel caso degli eventi minori, in media, le entrate dipendono al 70% dai finanziamenti pubblici e solo al 20% dagli sponsor. Certo, ogni evento ha poi la sua proporzione. Se Venezia e Roma beneficiano di ben più ingenti fondi pubblici, a Milano biglietti venduti, fondi privati e pubblici (Comune più fondi europei) contribuiscono per un terzo ai 500mila euro di budget. Eppure, nonostante i bilanci tirati, è proprio Canova a sottolineare che gli eventi cinematografici non sono “vuoti a perdere”. Il valore economico è collettivo: per i festival minori, un euro speso nella gestione genera un effetto complessivo sull’economia locale pari a circa due euro, tra turismo e lavoro per la manifestazione.

Il più “caro” tra i big è il Festival di Roma, che quest’anno è costato 10 milioni (meno degli scorsi anni). Venezia, tra sponsor e finanziamenti pubblici, arriva a un costo totale di 13 milioni di euro. Torino il più economico, con un budget di 2 milioni e 400 mila euro. Di queste cifre, come detto, il 70% deriva dai soldi pubblici. 

Le entrate complessive degli 11 festival minori presi a campione (Bologna, Courmayeur, Ischia, Lecce, Montone, Pesaro, Roma Arcipelago, Roma Independent, Taormina, Trieste, Udine) dalla ricerca Afic, ammontano invece a 3.812.270 euro a fonte di circa 4,2 milioni di euro di spese, con un disavanzo totale di 484.422 euro. Accanto a casi virtuosi che riescono a chiudere il bilancio in pareggio ‒ come Bologna, Ischia e Trieste ‒ la maggior parte dei festival presenta saldi negativi che variano dal -48,4% del Rome independent film festival al -1% del festival di Courmayeur. L’eccezione è rappresentata dal festival Maremetraggio di Trieste che presenta un avanzo di 8mila euro a fronte di spese complessive pari a 169mila. 

Le motivazioni dietro a un festival, comunque, restano in primis culturali e pubblicitarie. Se la Mostra di Venezia nacque negli anni Trenta «con intenti esplicitamente turistici», come ricorda Canova, è anche vero che le rassegne maggiori fungono ancora da vetrina per l’industria cinematografica. Per il pubblico esperto, poi, sono l’occasione di vedere pellicole escluse dalla grande distribuzione; per quello meno esperto, di appassionarsi; per chi studia cinema o fotografia, magari l’occasione di uno stage.

«Detto questo, resta il problema di fondo: per crescere, occorre che i festival trovino la forza di confrontarsi con le ragioni del cambiamento», scrive Canova nel report. È in atto una rivoluzione tecnologica e «se anche i festival non provvederanno rapidamente a sperimentare modalità innovative di presenza sul territorio e di rapporto con il pubblico», perderanno sempre più appeal. Purtroppo, «il recente avvicendamento alla direzione dei due festival più importanti, Venezia e Roma, lascia intravedere una sostanziale continuità con il modello fin qui perseguito».

Da questo punto di vista Torino sembra aver fatto qualche passo verso l’interattività col “Premio del pubblico”, che permetterebbe ai partecipanti di esprimere un giudizio, e con la “sala 2.0”, per vedere dal Web i film in gara. Basterà?