Non ha avuto fortuna, almeno per ora, l’ipotesi del Ministro Saccomanni di ridurre ulteriormente la soglia dell’uso del contante per aumentare la tracciabilità dei pagamenti. Limitare l’uso della carta moneta può di primo acchito apparire l’uovo di colombo per la lotta all’evasione. Chi non ha nulla da nascondere – si dice – non avrebbe nulla da obiettare. Nello stesso senso va tutta quella schiera di strumenti di anagrafica tributaria che ci rendono oramai nudi di fronte al fisco.
Le stime sull’evasione fiscale sono, appunto, stime. Considerando peraltro che uno dei metodi principali di calcolo è dato dagli accertamenti tributari, i quali per quasi la metà delle volte vengono in tutto o in parte smentiti in sede di contenzioso, i numeri sull’evasione vanno presi con cautela. Tanto premesso, prendendo per attendibili i dati ufficiali, nel 2008, secondo l’Istat, il sommerso si aggirava intorno al 16,3–17,5% del Pil. Nel 2010 era del 16%, poco più rispetto al 2009, e nel 2012, come ha dichiarato l’ex presidente della Corte dei Conti Giampaolino, al 18%. È proprio in quegli anni che il limite dell’uso del contante è aumentato. Senza considerare alcuni mesi del 2008 in cui si era anticipato un abbassamento a 5.000 euro, dal 2010 è passato da 12.500 a 5.000 euro fino all’estate 2011, e poi ancora da 2.500 a 1.000 fino al dicembre 2011, per fermarsi attualmente a 1.000, o per la precisione 999 euro.
Sembrerebbe quindi che limitare la libertà di scelta su come effettuare i pagamenti non sia determinante nella lotta all’evasione e, a ben riflettere, ciò non stupisce.
Finché i decisori pubblici continuano ad aggredire i comportamenti individuali anziché rimettere in sesto un rapporto malato, sfibrato, esausto tra fisco e spesa pubblica non ci sarà limitazione all’uso del contante che potrà essere di aiuto alla lotta all’evasione, tanto più quanto tale limite va ad incidere sulle piccole transazioni e sui consumi quotidiani.
Se persino il direttore dell’Agenzia delle Entrate Befera ha ammesso questa estate che esiste probabilmente un’evasione di sopravvivenza, è palese che stiamo continuando a guardare il dito e non la luna. Insistiamo a curare i sintomi della patologia dell’evasione senza badare alla diagnosi. Incomincino piuttosto i governi a rendere tracciabili le spese che effettuano tramite le risorse prelevate dalla tassazione, a stimare gli oneri amministrativi e non solo fiscali che chiedono al contribuente, a chiedersi quale sia il livello di tassazione sopportabile dalla capacità contributiva dei lavoratori, a domandarsi perché in sede giurisdizionale l’amministrazione fiscale soccombe così tante volte, e perché la limitazione dell’uso del contante, insieme a tutti gli strumenti di tracciabilità oggi in mano al fisco, non ha ridotto l’evasione (per come ci viene rappresentata dalle stime).
Il denaro è un mezzo attraverso il quale facciamo scelte, esprimiamo preferenze, esaudiamo desideri, adempiamo doveri, costruiamo l’aspetto non solo materiale della nostra esistenza. Dover rendere conto di quella parte di noi che si rivela anche attraverso gli acquisti ad uno Stato che a sua volta non rende conto di come spende quattrini che non sono suoi ma nostri, non è “trasparenza”. È piuttosto un’offesa alla nostra libertà di disporre di diversi strumenti di pagamento, tanto più importante quanto più la soglia minima coinvolge spese quotidiane nelle quali il contante è uno strumento rapido e pratico. È un ulteriore peso sulla bilancia del rapporto tra contribuente e amministrazione fiscale, dove su un piatto sta l’obbligo del primo di lasciare traccia di ogni azione, e sull’altro la libertà della seconda di usare quei dati per perseguire, giudicare, sanzionare quelle azioni, disponendo delle risorse che ne ricava, senza mai farci sapere come.
* articolo originariamente pubblicato sul sito dell’Istituto Bruno Leoni