PECHINO – Dopo il tour dell’accoppiata Xi Jinping-Li Keqiang per mezza Asia è il momento di fare il punto sull’«offensiva dello charme», la strategia cinese che gli analisti contrappongono al semidefunto «pivot to Asia» di Obama. Soldi, investimenti, infrastrutture ma non solo: anche un modello di gestire le tensioni politiche sottotraccia.
Non è un’espansione militare e neanche il soft power di cui da anni si vocifera spesso a sproposito. Per la Cina, la nuova dimensione da superpotenza globale passa attraverso l’offensiva dello charme, che da queste parti si dice meili gongshi e che, come dice il nome, fa leva sul fascino: quello dei soldi.
Visto che di denaro si tratta, parliamo di numeri. Nella recente tournée nel Sudest Asiatico, tra visite bilaterali e summit regionali (Asean e Apec), il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang hanno promesso di aumentare il fatturato annuo del commercio Cina-Asean fino a 1.000 miliardi di dollari entro il 2020 (ora siamo a “solo” 400 miliardi), hanno proposto la creazione di una banca di sviluppo delle infrastrutture regionali e spinto sull’acceleratore di una grande area di libero scambio (Regional Comprehensive Economic Partnership, Rcep ), i cui negoziati dovrebbero concludersi entro il 2015.
A Bali, Xi ha fatto in prima persona da supervisore alla firma di accordi tra aziende cinesi e indonesiane per 33 miliardi di dollari, mentre con la Malaysia è stato deciso di elevare le relazioni a una “partnership strategica globale” che comporta maggiore cooperazione militare e moltiplicazione per tre del commercio bilaterale, fino a raggiungere 160 miliardi dollari entro il 2017. Alla Thailandia, la Cina ha promesso l’acquisto di un milione di tonnellate di riso e di altre derrate alimentari nei prossimi anni.
La formula non è nuova. Anche nel 1997, al tempo della grande crisi delle “tigri asiatiche”, Pechino scelse di affascinare per interposta economia. In quell’occasione, la Cina accettò di non svalutare il Renminbi per non affossare le “Tigri asiatiche” in piena crisi. Pechino tirò quindi la sua prima stoccata, prendendo le distanze dalle ricette “lacrime e sangue” che avrebbe voluto il Fmi Usa-centrico (una triste storia che si ripete), e proponendo invece un accordo commerciale di libero scambio con l’Association of South-East Asian Nations. Partecipò quindi alla Chiang Mai Initiative, la costituzione di un fondo di riserva da 120 miliardi di dollari che sottoscrisse con Giappone, Corea del Sud, Hong Kong e Asean stesso, una sorta di “assicurazione” in caso di crisi valutaria nella regione.
Erano altri tempi: a quell’epoca il Dragone e le Tigri si facevano concorrenza sull’export a basso prezzo nei Paesi occidentali e un ritocchino verso il basso al valore della moneta cinese avrebbe semiestinto i felini della porta accanto. Pechino mostrò quindi lungimiranza. Oggi la situazione è diversa: la Cina che vuole diventare economia evoluta, si propone in prima persona come acquirente, dando in cambio infrastrutture.
Sono proprio queste, insieme agli investimenti diretti, la chiave di volta. Per decollare definitivamente, l’Asean ha disperatamente bisogno di strade, ponti e ferrovie, la Cina si è offerta per la pronta consegna. Le sue ferrovie sono già un prodotto prêt-à-porter relativamente a buon mercato e poi, se ce n’è bisogno, sarà la stessa Cina a prestarvi i soldi per comprarle, in uno schema che ricorda molto da vicino l’economia “dei galeotti incatenati” che contraddistingue il rapporto del Celeste Impero con gli Usa: Washington si indebita con Pechino e Pechino le ricompra il debito, sotto forma di bond del Tesoro. Quegli stessi dollari sono oggi pronti per prendere la strada del Sudest Asiatico, mentre l’amministrazione Obama annaspa nelle acque agitate del bilancio federale e per questo motivo rinuncia proprio al viaggio in Oriente, lasciando strada libera alla Cina. Tutto si lega.
Ed ecco quindi la “banca asiatica delle infrastrutture”. La già esistente Asian Development Bank ha stimato che, tra il 2010 e il 2020, il continente ha bisogno di investire circa 8mila miliardi dollari in infrastrutture nazionali e 290 miliardi di dollari in infrastrutture regionali (altre stime parlano di 60 miliardi l’anno) per sostenere la propria traiettoria di crescita. Va considerato che il fondo infrastrutturale Asean, lanciato ufficialmente nel 2012, aveva un capitale di partenza di soli 485 milioni dollari.
Arriva quindi Pechino e mette mano al portafoglio. Così, se le stime per la costruzione di una ferrovia da Kunming, Cina, a Ventiane, Laos, sono di 6 miliardi di dollari, una cifra che corrisponde quasi all’intero Pil del secondo Paese, il Dragone dice “ghe pensi mi”. È già per altro previsto che i treni ad alta velocità che collegheranno il Celeste Impero a Thailandia e Laos possano, in futuro, raggiungere Malaysia e Singapore.
Soldi quindi, non promesse. Ci sarebbe da obiettare che le tensioni con i partner veri e presunti nei mari Cinese Orientale e Meridionale potrebbero inficiare tutta l’offensiva dello charme, ma non bisogna farsi trarre in inganno. Pechino e molti dirimpettai – soprattutto Tokyo – amano uno stile diplomatico discreto e, mentre fanno la voce grossa o annullano vertici ufficiali, mantengono fitte relazioni sotto traccia. È questo per esempio il caso del Summit trilaterale tra Cina, Giappone e Sud Corea, che dovrebbe tenersi a breve a Seul è sarà invece posticipato o annullato perché – recitano i media – non ci sono le condizioni per incontri al vertice. È stata proprio la Cina a premere per un rinvio, ma intanto – dicono più fonti – continuano i dialoghi tra funzionari di livello inferiore.
Intanto – dati aggiornati al 21 ottobre – il Giappone ha registrato il quindicesimo mese consecutivo di deficit commerciale, con la bolletta energetica alle stelle sull’onda lunga del disastro di Fukushima. Da dove vengono gli unici segnali positivi? Dall’aumento delle esportazioni in Cina, principale partner commerciale, che alla faccia delle tensioni diplomatiche sono aumentate dell’11,4 per cento nel giro di un anno. Anche qui, lo “charme” si esprime molto prosaicamente.
Lo stesso schema si replica alle frontiere occidentali. A settembre, l’instancabile ed errante Xi ha fatto un tour di dieci giorni in Asia centrale attraverso Turkmenistan, Kazakistan, Uzbekistan e Kirghizistan. È stato al G-20 di San Pietroburgo e al summit della Shanghai Cooperation Organization di Bishkek. In ogni luogo, il presidente cinese si è impegnato a sostenere economicamente i vicini: in Turkmenistan ha inaugurato un giacimento di gas naturale, in Kazakistan ha promesso 30 miliardi di dollari in progetti energetici e infrastrutturali, in Uzbekistan e Kirghizistan ha fatto analoghe promesse. In cambio, la Cina chiede una sempre maggiore cooperazione sul piano dell’agenda diplomatica, della sicurezza regionale e delle politiche energetiche. Se nel 2014 gli Usa lasceranno davvero l’Afghanistan, c’è già chi è pronto a rimpiazzarli.
Proseguendo sulla via della Seta, si arriva in Turchia dove, sempre alla voce “offensiva dello charme”, Pechino si è appena accordata con Ankara per la vendita di un intero sistema missilistico prêt-à-porter da 3,4 miliardi di dollari. Se ne è parlato diffusamente, molti analisti vi leggono i prodromi di un’espansione cinese a Occidente anche sull’onda delle armi perché la Turchia, ricordiamolo, è un membro della Nato. Washington ha immediatamente protestato e l’accordo è ancora da ratificare, ma si tratta comunque di una prima crepa nel sistema Atlantico. L’impresa che ha fatto le scarpe alle varie Raytheon e Lockheed Martin è la China Precision Machinery Import e Export Corporation. Semisconosciuta, sì, ma – beffa delle beffe – già sotto sanzioni Usa per violazione dell’Iran, North Korea and Syria Non-proliferation Act, una misura unilaterale statunitense di cui, evidentemente, i cinesi se ne fregano. Ma anche questa notizia può essere letta come un’operazione commerciale, nel quadro dell’offensiva dello charme (del resto, aspetto militare e commerciale non si escludono a vicenda): un sistema missilistico di difesa alla stregua di una qualsiasi merce, sia essa una ferrovia o una partita di 750mila tostapane. È il fascino indiscreto del denaro cinese, terribilmente macho nella sua versione missilistica.