La difesa della mozione Civati sulle Università

La difesa della mozione Civati sulle Università

Ho contribuito a scrivere la parte relativa al sapere della mozione Civati a cui l’analisi di Linkiesta riserva alcune critiche. Credo utile  il confronto e per questo  proverò a rispondere nel merito.  Il  capitolo, si scrive nel commento, “ricco di argomentazioni sull’importanza della scuola e dell’università per la mobilità sociale, l’integrazione, la competitività e la crescita economica, elude totalmente questioni fondamentali”. Proverò a soffermarmi su alcune delle osservazioni fatte, riferite prevalentemente all’università.

Nella nostra mozione non si parlerebbe dell’annoso problema del finanziamento. 
In verità se ne parla, eccome, del finanziamento.La riduzione delle risorse in meno di tre anni del  15% sta producendo danni irreversibili ai nostri atenei. Questi tagli sono arrivati, peraltro, dopo un decennio in cui il fondo ordinario si aveva già subito una contrazione rispetto al periodo 1994 2000. La situazione ora è drammatica. É stato realizzato un sistema universitario a due velocità: chi subisce pesanti tagli ma sopravvive a fatica, chi è già ad un passo tracollo. Per queste ragioni riteniamo indispensabile, prima di ogni altra cosa, rifinanziare le nostre università. In effetti non prendiamo in considerazione l’ipotesi, ultimamente in voga anche da noi, di aumento delle tasse universitarie e conseguente spostamento del finanziamento dalla fiscalità generale alle famiglie, più di quanto già non avvenga oggi. Se ne avessimo parlato avremmo comunque detto che tra i paesi dell’Europa a 19 per i quali i dati sono disponibili, solo l’Italia, l’Olanda, il Portogallo e l’Inghilterra hanno tasse annuali al di sopra di 1100 dollari per studente a tempo pieno. In particolare  l’Italia si colloca sesta come tasse universitarie, ma ultima come percentuale di studenti beneficiari di contributi per diritto allo studio. Si noti inoltre che il fondo integrativo statale per le borse di studio è recentemente passato da 246 a 76 milioni (-69%, un taglio enorme) equivalente al taglio di 45.000 borse su 150.000 erogate (che già coprivano solo l’82.5% degli aventi diritto). Dunque mentre le rette in Italia sono paragonabili, se non addirittura più alte, a quelle d’altri paesi europei, gli studenti meno abbienti non ricevono un aiuto rilevante a causa delle carenze strutturali di una politica per il diritto allo studio che dovrebbe essere lo strumento per rendere il sistema socialmente più equo, come avviene in altri paesi europei. Una politica di investimenti indispensabile per aumentare il numero degli iscritti e soprattutto dei laureati che ancora è drammaticamente inferiore alla media ocse.

Non ci occupiamo della contabilità economica degli atenei. 
Sinceramente non ci è sembrata come l’emergenza principale tra i tanti problemi attuali delle nostre università.  Inoltre potremmo aggiungere  che in una mozione congressuale questo elemento di dettaglio apparirebbe decisamente sorprendente, anche in un documento ben più lungo di quelli dei nostri competitori. Faccio ugualmente alcune brevissime riflessioni su questo punto. La nuova contabilità economico patrimoniale, con l’introduzione del bilancio unico, presenta più di una criticità a mio avviso. Questo meccanismo – in sé neutro – calato in una realtà che produce “beni” molto particolari come la ricerca e l’insegnamento se non viene contemperato da elementi che permettano di valorizzare  la produzione scientifica e l’attività didattica rischia di ridurre la valutazione delle poste produttive e improduttive a modalità che mortificheranno la stessa mission delle università.  Sarebbe stato molto più sensato accompagnarlo ad un bilancio sociale previsto, peraltro, dalla direttiva per la rendicontazione sociale nelle pubbliche amministrazioni del 2 maggio del 2006. Ma il vero paradosso è che introducendo il bilancio unico non si è tenuto conto, come spesso capita con le presunte riforme motivate da pure esigenze di risparmio, degli effetti immediati: la conseguente chiusura dei conti di tesoreria intestati ai dipartimenti universitari  da attuarsi entro il 1° gennaio 2014 potrebbe determinare una diminuzione del livello di fabbisogno finanziario realizzato nell’anno 2013 tale da generare, in base alle attuali regole di calcolo, un fabbisogno finanziario non adeguato a sostenere il funzionamento del sistema universitario. Tant’è che  per evitare questo rischio la legge di stabilità prevede che il fabbisogno finanziario da assegnare nell’anno 2014 sia definito sulla base di un dato che non risente degli effetti del bilancio unico di ateneo, ed è quindi determinato incrementando del 3 per cento il fabbisogno programmato nell’anno 2013.  Da ultimo difficilmente  la contabilità economico patrimoniale potrà risolvere problemi che sono imputabili a scelte di gestione.La comparabilità dei bilanci non può supplire alla cattiva amministrazione. Serve per questo più autonomia ma soprattutto più responsabilità.

Ci preoccuperemmo troppo di chi è dentro l’università anzi “esclusivamente della stabilizzazione dei precari e dei ricercatori.” 
Su questo vediamo direttamente cosa dice la mozione:

“Il dottorato di ricerca deve essere condizione necessaria per diventare ricercatore, e tra il post-doc e l’immissione in ruolo altro non può esserci altro che un contratto da ricercatore con tenure-track. Se il periodo di prova è valutato positivamente, il ricercatore ha il diritto di vedere trasformata la tenure-track in posto di ruolo. Sulla carta questo sarebbe previsto ma nella sostanza oggi all’università non si assume nessuno e si licenziano i precari. Per prima cosa bisogna riprendere il reclutamento, renderlo ciclico e accompagnarlo da un piano straordinario che restituisca a due generazioni di ricercatori le opportunità che sono state loro scippate. Il sistema attuale dimostra che i concorsi non sempre premiano i più meritevoli, anzi sono il miglior modo per consentire a chi decide l’immissione in ruolo (i membri della commissione) di poter scegliere il vincitore senza averne responsabilità alcuna. Ogni singola struttura deve poter decidere qual è la persona giusta da inserire nei propri gruppi di ricerca, o la più adatta per assumere la docenza di un determinato corso. Per tagliare via il nepotismo, le clientele, i favoritismi è necessario e sufficiente legare la carriera, i fondi di ricerca, e lo stipendio di chi assume la decisione non solo con il suo rendimento, ma anche con il rendimento della persona scelta. In una parola, chi assume sarà valutato anche in base al rendimento di chi è stato assunto, e le strutture avranno più posti in futuro se chi è stato assunto in passato ha una buona valutazione » 

A noi questa sembrauna rivoluzione per il sistema di reclutamento delle università italiane. Ci occupiamo quindi di chi aspira ad insegnare nelle nostre università potendo contare sulle proprie capacità. Considerando che il numero di docenti cala senza sosta, i dati ci dicono che se nel 2009  erano 63.000 nel 2018 arriveranno a 44.000, riprendere il reclutamento superando le patologie dell’attuale sistema ci sembra, decisamente, una priorità.

Non parliamo del rapporto tra finanziatori privati e università. Ci piacerebbe che esistesse questo rapporto peccato che il sistema produttivo italiano per ragioni  troppo lunghe da affrontare in questa sede non abbia né la forza, né le dimensioni, né la lungimiranza per investire nell’istruzione e nella ricerca tranne quando prova a fare piccoli business  sulle spalle degli studenti e dei docenti che ci finiscono dentro come quelli delle università telematiche ma questa è altra storia.  Naturalmente esistono anche lodevoli eccezioni ma sono, appunto, tali.

Eludiamo, poi,  uno dei nodi fondamentali: cosa fare delle università minori.

Infatti siamo convinti che prima di decidere cosa fare delle università “minori” bisognerebbe capire cosa fare dell’intero sistema universitario italiano. Rispondere ad alcune domande di fondo: a cosa deve servire, a quale domanda sociale deve rispondere? I laureati in Italia sono molti o sono pochi? Il nostro sistema produttivo è in grado di assorbire le professionalità che si formano negli atenei così com’è?  Dobbiamo adeguare l’offerta formativa alla domanda? Quale deve essere il rapporto tra territorio e università?  

A questi interrogativi abbiamo provato a rispondere diffusamente nella mozione.

La critica di fondo del commento sarebbe rivolta ad una sorta di egualitarismo che spinge in basso la qualità delle nostre università mentre dovremmo porci il problema di come competiamo con le eccellenze di cui il resto del mondo è disseminato.
Potremmo rispondere chela retorica delle riforme orientata ad individuare e rafforzare presunte eccellenze ha già prodotto danni enormi e certo non servirà a rendere i nostri atenei competitivi con quelli Usa o quelli emergenti di Cina o India. Del resto criticare il sistema di valutazione adottato nel nostro paese, come facciamo nella mozione,  non significa rifiutare di porsi il problema di cosa e come valutare.  Non c’è dubbio, infatti, che in un sistema con risorse finite, come qualsiasi sistema universitario, è necessario valutare per tre scopi differenti: assumere, promuovere e ripartire le risorse. Il problema è quale sia il modello da adottare.  In Italia, i meccanismi di valutazione della ricerca hanno così tante storture che è c’è bisogno di ridisegnare il sistema nel suo complesso. Quello attuale non solo è stato mal concepito, ma è stato addirittura peggiorato quando si è passati dal disegno alla realizzazione pratica. Lo stato italiano sta gettando nella macchina della valutazione risorse enormi (costi diretti di Anvur e soprattutto costi indiretti dei soggetti sottoposti a valutazione) che non sono giustificate in termini di benefici futuri. Perché non è vero che qualsiasi valutazione migliora la ricerca. Una cattiva valutazione, come quella di Anvur, ha effetti negativi sulla qualità della ricerca. E di questo l’università italiana non ha proprio bisogno.

Un sistema autonomo, responsabile e valutato in relazione alla missione che gli viene affidata è uno degli orizzonti di questa mozione. Presuppone però certezza delle risorse, capacità di programmazione, reclutamento ciclico e un welfare che permetta agli studenti di accedere all’università e scegliere la sede più idonea alle loro aspirazioni. Esattamente le cose che riteniamo prioritarie.

L’università italiana è ampiamente migliorabile sotto il profilo della qualità dell’offerta formativa, delle strutture e della capacità di fare ricerca, almeno in alcune discipline, ma è caratterizzata da un buon livello medio che rappresenta il suo punto di forza.  Livello che rispetto alle risorse investite è anche troppo elevato.

Per concludere vogliamo sottolineare che questo non è il programma di governo ma una mozione congressuale in cui il candidato segretario si posiziona dal punto di vista valoriale e delle scelte di fondo su alcuni argomenti rivolgendosi al partito e a tutti coloro che simpatizzano per il PD o hanno aspettative nei confronti di questa formazione politica.  L’obiettivo del testo era ribadire la centralità dell’istruzione, della ricerca e dell’università oltre che delle figure sociali al centro di questi mondi, segnando una netta discontinuità rispetto a ciò che è accaduto negli ultimi anni.  Questo è ciò che abbiamo fatto selezionando alcune priorità.

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