Le prossime guerre non saranno combattute per conquistare un territorio o assicurarsi riserve petrolifere, bensì per controllare bacini d’acqua non salata, una risorsa che Brahma Chellaney, docente di Studi Strategici al Center for Policy Research di Nuova Delhi e autore del nuovo libro Water, Peace and War (Acqua, Guerra e Pace – edito da Rowman & Littlefield) chiama senza mezzi termini «l’oro blu». I numeri sembrano confermare la teoria del docente indiano: di tutta l’acqua presente sulla terra il 97,5 per cento è salata mentre del restante 2,5 per cento soltanto l’1 per cento cade sotto la definizione internazionale di «potabile». Non solo. Se durante lo scorso secolo la popolazione mondiale è cresciuta di 3,8 volte arrivando ai quasi sette miliardi di oggi, nello stesso periodo l’utilizzo pro capite di acqua non salata è cresciuto di ben nove volte – più del doppio. Una situazione paradossale e insostenibile nel lungo periodo. Non a caso in Water, Peace and War viene argomentato che già a partire dal 2025 alcune grosse città cominceranno a mostrare i primi segni di stress economico-sociale causati da insufficienza d’acqua non salata. Il primo di questi agglomerati urbani dove la situazione potrebbe precipitare è Sana’a, la capitale dello Yemen, una città di 2 milioni di persone le cui falde acquifere sotterranee sono sfruttate con ritmi che porteranno presto a un loro esaurimento.
Alla città del Golfo potrebbero poi seguire Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi e Quetta, nel nord del Pakistan ed entro la metà di questo secolo i “rifugiati dell’acqua”, ovvero persone che emigrano dalla loro città d’origine per trovare rifugio in posti dove l’acqua è più abbondante sono stimati in oltre 200 milioni. Ma questo scenario rappresenta soltanto la punta di un enorme iceberg. Il principale problema legato alla disponibilità di acqua da fiumi, falde sotterranee o laghi è che la stessa risorsa viene spesso utilizzata da due o più paesi mentre nella maggior parte dei casi è uno soltanto di questi ad avere il controllo sulla sorgente. Dei fiumi più importanti l’80 per cento circa si estende lungo più di un paese e delle falde acquifere più grandi ben 274 si trovano sotto i confini di due o più nazioni. Così mentre l’acqua non salata diventa un bene sempre più raro le probabilità che sia alla radici di tensioni politiche ed economiche sono sempre maggiori. Nel marzo scorso l’intelligence americana ha reso pubblico un memorandum in cui ammonisce sul possibile utilizzo dell’acqua potabile “come arma” in un futuro non troppo lontano, uno scenario già diventato realtà in alcuni paesi.
Come questo giornale ha scritto in precedenza, nel corno d’Africa la costruzione della gigantesca Grand Renaissance Dam (Grd) – con cui Addis Abeba avrebbe intenzione di bloccare parti del Nilo – ha già creato forti attriti tra Etiopia, Egitto, Sudan e altri paesi dell’area. E ha scatenato una minaccia di guerra da parte di Mohamed Morsi, l’ex presidente dell’Egitto, contro il vicino etiope. Ma il caso del Cairo e di Addis Abeba rischia di non essere isolato. Nel nuovo libro Chellaney evidenzia come la causa alla radice della Primavera araba sia da ricercare proprio nella scarsità di acqua dolce la sua insufficienza ha infatti causato magri raccolti, i quali a loro volta hanno comportato un aumento dei prezzi e agito come involontario catalizzatore del generale scontento economico e politico.
Altra conferma viene dalla rilettura della guerra dei Sei Giorni del 1967 tra Israele e la Giordania (con i suoi alleati). Il vero obiettivo di Tel Aviv era il controllo del fiume Giordano e delle sue risorse acquifere. In favore di questa tesi il docente indiano evidenzia come nelle sue memorie lo stesso ex primo ministro Ariel Sharon ha posto una grande enfasi sul ruolo dell’acqua nella guerra. «I conflitti tra paesi potrebbero essere evitati – ha detto Chellaney in una recente intervista – il problema è che non esiste una struttura internazionale o un codice di condotta in grado di garantire la risoluzione delle numerose dispute che via via si presenteranno. Il problema è grave e non sembra esserci una forte volontà internazionale di risolverlo». In questo contesto è indicativo un accordo promosso dalle Nazioni Unite nel 1997 con l’intento appunto di regolamentare le dispute sulle risorse d’acqua non salate ancora in stallo a causa della mancanza di un numero sufficiente di firmatari per la ratifica. Inoltre, nonostante siano attualmente più di duecento le intese siglate per una comune gestione dell’acqua non salata mancano dei precisi criteri guida per la risoluzione delle eventuali dispute. Soltanto 18 dei trattati in vigore includono regole adatte ad evitare possibili instabilità politiche ma fatto straordinario è che tutti questi accordi sono stati firmati nel 19 esimo secolo quando la scarsità d’acqua non era un problema. Mark Twain diceva che «il whisky serve a bere, mentre l’acqua a litigarci sopra». Stando al nuovo libro di Chellaney sembra che avesse proprio ragione.