Le assoluzioni con formula piena di Silvio Scaglia – ex numero 1 di Fastweb, destinatario di un provvedimento di custodia cautelare per evasione fiscale durato un anno – e di Antonio Bassolino, rinviato a giudizio per la gestione del ciclo dei rifiuti a Napoli e in Campania, hanno generato nell’opinione pubblica uno strano sentimento di scalpore misto a indignazione. Non mi meraviglia. Dopotutto, stiamo parlando di due personaggi presentati fin dall’inizio come imputati muniti di condanna definitiva in pectore, quasi fossero stati colti in flagranza di reato.
Quelle di Scaglia e Bassolino non sono le prime assoluzioni “a sorpresa”, e sicuramente non saranno le ultime. Eppure, in una democrazia matura le pagine dei giornali dovrebbero essere occupate non dalla fase delle indagini o da quella cautelare, per loro natura dominate dal punto di vista del magistrato inquirente, ma da quella del processo vero e proprio – caratterizzato dalla pubblicità delle udienze e soprattutto dalla parità delle armi –, dove l’imputato ha finalmente la possibilità di difendersi. La vicenda Scaglia, in particolare, impone di riflettere ancora una volta sulla necessità di un ricorso più contenuto alla custodia cautelare.
La situazione, però, non è facile. L’attuale maggioranza politica si mostra incapace di adottare provvedimenti concreti sul fronte Giustizia. Anzi, temo che dopo il “caso Ligresti” il ministro Cancellieri sarà sottoposto a uno stretto controllo politico-mediatico. È impensabile che si renda promotore di una simile riforma, sebbene sia stata richiesta a gran voce dal centro-destra e rappresenti comunque un obiettivo del centro-sinistra. Spiace doverlo constatare, ma in materia di Giustizia il governo, dopo essere stato frenato da Berlusconi, adesso ha davanti un ostacolo in più: un ministro che si mostrerà inevitabilmente guardingo su questioni delicate come la carcerazione preventiva.
D’altronde, non basterebbe un intervento sulle misure cautelari per arginare il fenomeno di imputati massacrati prima della sentenza definitiva.
Anche i mass media dovrebbero rivedere certi comportamenti. Pretendere un ricorso moderato ai titoli a effetto non è realistico, ma si può certamente evitare di presentare come dogmatiche certezze semplici ipotesi investigative, magari offrendo più spazio a opzioni ricostruttive fornite dalla difesa. Non si può far finta di non sapere che spesso le fonti a cui attingono i giornalisti sono gli stessi organi investigativi: è naturale quindi che la notizia divulgata sia in un certo senso viziata da un indice di parzialità, proprio perché rappresenta il punto di vista di una sola parte.
Quel che auspico, dunque, non è tanto maggiore prudenza nel divulgare la notizia, quanto l’obbligo morale di controbilanciarla: non conosco un solo processo, persino tra quelli che si concludono con una sentenza di condanna, in cui non esistono elementi favorevoli all’imputato. Bisognerebbe farsi carico di elencarne qualcuno. Quanti? A titolo di esempio, direi almeno tre. Si potrebbe concepire una specie di Regola del Tre: in ogni articolo o servizio del telegiornale, tre considerazioni a favore dell’imputato. È una regola semplice. Basta poco per salvaguardare la dignità di una persona.