Trovare le coperture per le diverse misure previste nella legge di stabilità, non è cosa facile, soprattutto se non si ha intenzione – o possibilità – di ridimensionare la spesa pubblica. Le promesse sono tante e piuttosto impegnative dal punto di vista finanziario. Si pensi soltanto alle conseguenze di congelare il pagamento dell’IMU per un anno. La strada scelta dal governo Letta per tappare i buchi di bilancio è quella della creatività: le risorse si cercano negli anticipi di imposte – ovvero prestiti forzosi – o nelle privatizzazioni attuate a stretta “collaborazione” con la Cassa Depositi e Prestiti, di cui lo Stato detiene l’80 percento del capitale. Un ruolo importante sarà giocato anche dalla tanto attesa rivalutazione delle quote di Banca d’Italia.
Quest’ultima operazione ha degli aspetti che meritano di essere analizzati in dettaglio. Iniziamo con gli elementi di base. Le quote del capitale della Banca d’Italia sono formalmente detenute al 94,33 percento dagli istituti di credito italiano. Queste quote hanno un valore nominale (complessivo) simbolico di 156 mila euro e non danno nessun diritto circa la conduzione dell’Istituto di via Nazionale. Questo è un punto cruciale visto che per entrare nell’Euro abbiamo dovuto garantire l’indipendenza di via Nazionale. Gli istituti di credito in possesso di tali quote le hanno iscritte in bilancio per un valore maggiore rispetto a quello nominale, per sostenere un po’ i propri bilanci. Tito Boeri su lavoce.info ci spiega che il valore complessivo iscritto a bilancio ammonta complessivamente a circa un miliardo di euro.
Quello che il governo propone è che il valore nominale di queste quote sia rivalutato. Dagli attuali 156 mila euro a un valore che oscilla fra i 5 e i 7 miliardi. Fatta la rivalutazione, le banche potrebbero iscrivere a bilancio il valore rivalutato delle quote generando quindi una plusvalenza finanziaria complessiva che andrebbe dai 4 ai 6 miliardi. Plusvalenza che sarà tassata come una normale plusvalenza finanziaria. Meccanismo semplice e redditizio: con un tratto di penna il governo potrebbe alla fine recuperare circa 1-1.5 miliardi (il gettito derivante dall’imposta sulla plusvalenza), utilissimi a far quadrare i conti. Assumere una rivalutazione compresa fra i 5 e i 7 miliardi non è ipotesi di scuola. Il comitato di esperti nominati dal governo per portare avanti la rivalutazione – esperti di indubbia caratura accademica se vi compare il rettore della Bocconi Andrea Sironi insieme a Franco Gallo e Luca Papademos (qui il link al rapporto) – ha individuato tale forchetta come valore congruo per le quote di Banca d’Italia. A prima vista potrebbe sembrare che saranno gli istituti di credito a pagare per le promesse del governo di larghe intese. Non è così purtroppo.
Andiamo per ordine. Con quali soldi le banche coinvolte nella rivalutazione pagheranno l’imposta sulle plusvalenze? Vista la precaria situazione finanziaria dovranno fare ricorso alle linee di credito concesse dalla Banca Centrale Europea mediante le operazioni di rifinanziamento. Posto che la Banca Centrale Europea sia disposta a finanziare le nostre banche per il saldo dell’imposta, ci chiediamo se non sarebbe più opportuno utilizzare queste risorse per migliorare le condizioni del credito a famiglie e imprese. Alle condizioni attuali, l’effetto della rivalutazione rischia di peggiorare l’accesso al credito per un ammontare simile al gettito dell’imposta sulla plusvalenza.
Gli effetti perversi della rivalutazione non si fermano soltanto qui. Sembra che nella norma che il governo sta preparando per predisporre la rivalutazione sarà prevista la possibilità per le banche di rivendere le quote in eccesso del 5 percento del capitale in loro possesso. Chi acquisterebbe le quote? Ovvio, la stessa Banca d’Italia, che non solo sarà obbligata a farlo, ma a pagarle al prezzo rivalutato. Facciamo un esempio concreto. Banca Intesa detiene quote equivalenti al 26,8% del capitale di Banca d’Italia. Se la norma sarà effettivamente varata, Banca Intesa potrà cedere il 21,8% delle proprie quote incassando da Via Nazionale il 21,8% della forchetta di 5-7 miliardi: una somma compresa tra 1 e 1,5 miliardi di euro. Come nel gioco delle tre carte, si cerca di nascondere chi veramente pagherà per la creatività del governo. Pagherà la Banca d’Italia con le riserve accumulate attraverso il monopolio sul signoraggio monetario. E a beneficiarne saranno anche le banche, che d’altronde sono sempre pronte a entrare in aiuto della politica, come quando si tratta di finanziare operazioni capestro come quella di Alitalia.
Ci chiediamo se questo è l’uso migliore che si può fare delle riserve della nostra Banca d’Italia. Sicuramente non lo è da un punto di vista finanziario. Chi di noi investirebbe i propri risparmi in quote di via Nazionale? Forse il governatore Visco e i dipendenti della Banca sarebbero disposti ad accettare che per riacquistare le quote sia utilizzato il loro fondo pensione? Ne dubitiamo fortemente per una semplice ragione: negli ultimi quindici anni sono stati distribuiti in media circa 156 euro a quota per un totale di circa 46,5 milioni annui. Un terribile investimento. Basti pensare che se le risorse necessarie per riacquistare la Banca di Italia dopo la sua rivalutazione fossero investite allo stesso rendimento offerto da un Buono del Tesoro decennale restituirebbero dai 160 ai 250 milioni di euro all’anno. C’è chi propone che le riserve della Banca di Italia siano direttamente utilizzate per ridurre il debito pubblico. Non è certo questa la soluzione che stiamo suggerendo. Invece riteniamo che un’operazione come quella a cui sta lavorando il governo Letta debba essere pensata con maggiore cura e attuata in un momento in cui il governo non sia assetato di risorse.