Selfie Generation: una su cento è quella buona

Selfie Generation: una su cento è quella buona

La parola dell’anno non è sexting né twerk né bitcoin. L’Oxford Dictionary ha deciso che la parola più rappresentativa del 2013 è selfie, cioè quella pratica diffusissima soprattutto tra gay (+James Franco), donne e teenagerdi farsi una foto con il cellulare o una webcam. Se preferite l’italiano si dice autoscatto.

Per un po’ ci siamo interessati ai gattini, ai tramonti e alle foto delle nostre scarpe. Poi, epifania!, abbiamo scoperto che i filtri Instagram oltre a far sembrare bellissime le tazzine della nostra colazione erano anche decisamente lusinghieri con noi. E tutto è cambiato. Kevin Systrom, co-creatore di Instagram, dice: «Inizi a mettere like sulle foto altrui e prima che te ne renda conto stai già facendo amicizia in un modo nuovo». L’amicizia? Forse. Ma soprattutto il rimorchio, una gratificazione che passa per il like. Per essere tutti più belli abbiamo passato ore di fronte allo specchio, prima, e di fronte allo smartphone, dopo, facendo tutte quelle smorfie che solo a noi parevano donarci un aspetto da dieci mila like, tra filtri spianarughe vintage e luci cosmetiche. (Solo gli adolescenti like-compulsivi, che non hanno bisogno di trucchi, e i migliori di Hollywood, raggiungono realmente certe cifre. I più forti e risolti non contano le notifiche una a una).

Prima della camera frontale andavamo in bagno, il posto più intimo e con uno specchio sufficientemente grande a contenere il nostro ego. Abbiamo imparato la posa a memoria: è diventato un automatismo. E’ successo a un certo punto non bene identificato di questo decennio, pressapoco tra l’introduzione della camera frontale nei cellulari e la condivisione social. Ogni volta che ci puntavano l’obiettivo in faccia eravamo pronti: abbiamo iniziato a ripetere quei movimenti facciali. La nostra maschera da indossare in quel dispositivo-specchio che è Facebook, come ha scritto Maddalena Mapelli, «Il dispositivo specchio, quindi, crea effetti di realtà e di somiglianza senza creare oggetti esistenti né copie identiche». Sforzi indecenti solo per trovare la posa plastica di quel che solo a noi pare essere il profilo, lo sguardo, il rigonfiamento labbra perfetto: un equo riconoscimento di come il mondo dovrebbe vederci. Una su cento è quella buona. Le parole chiave in tutto questo è: Solo-a-Noi. Solo a noi viene in mente di essere perfetti con duckface e labbra storte. La maggiorparte delle foto è il ritratto di una generazione sfigurata da smorfie grottesche, paresi e sguardi spiritati.

Ne abbiamo le timeline piene. Nessuno si è sottratto: da Hillary Clinton a Rihanna, da Victoria Beckam a Barbara D’Urso, da Paul McCartney a Papa Francesco. Lo abbiamo fatto ovunque: dallo spazio privato a quello pubblico, dal bagno ai funerali. Non abbiamo risparmiato neppure il memoriale della shoah di Berlino, toccando l’apice del postmodernismo con gli hashtag #arbeitmachtfrei insieme a #feelgood. Il buzz ha attirato i giornalisti che ci hanno spiegato quanto la pratica fosse adatta (Slate) o disadatta per le donne (Jazebel); sconveniente per gli uomini (Telegraph); o difendendola contro i detrattori anti-narcisisti. 

Ultimamente girano video virali sull’inganno più feroce: fingere di fare una foto e invece girare un video.

Peggio dello scherzo solo i commenti ai filmati tipo «Hipster ripresi mentre credono tu li stia fotografando e invece è un video». C’è qualcosa di maligno e imbarazzante allo stesso tempo in questi video: un po’ perché effettivamente vedere qualcuno che si mette in posa è ridicolo, un po’ perché sembra che riguardi solo gli altri. Ridere della pagliuzza altrui e non vedere la trave nel proprio selfie. Datemi una fotocamera, mettetevi sulla mia via, e vi dimostrerò che non c’è alcuna distinzione tra quegli «Hipster» e uno qualsiasi di voi: nessuno vuole venire male in foto.

Ma è impossibile impedire le critiche online. O forse no. Solo una settimana fa Justin Bieber, celebrity da 47 milioni di follower su Twitter (più di Barack Obama) e 57 milioni su Facebook, sponsorizzava la app Shots of Me, che consente di condividere i propri autoscatti nella cerchia di amici e, passaggio importante, non consente messaggi da estranei, il che dovrebbe bloccare gli hater, o i troll, o se preferite: quelli che per farsi notare fanno i bulletti online. O così la pubblicizzano nella speranza di attrarre i più giovani.

Il CEO di Shots of Me si chiama John Shahidi, e ha spiegato a TechCrunch che l’idea è sviluppata proprio attorno agli adolescenti, e tra le righe il messaggio è: il modello SnapChat ci è piaciuto e vogliamo replicarlo. Va tutto bene, ma quand’è che penseranno anche alle madri di questi teen? 

I selfie sono l’ennesimo caso in cui la socialità dei nostri giorni è definita da geek informatici. I quali nonostante facciano i lavori più noiosi di questo mondo scrivere codici e algoritmi sono le personalità più cool del nuovo millennio: miliardari che ci fanno flirtare e “stringere amicizia” a livelli impensabili solo un decennio fa. Dovremmo smetterla con questo cliché dei nerd incapaci di leggere il mondo sociale, dal momento che ormai sono loro a costruirlo. A noi non resta che autoscattarci. 

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