Nel 2011 nove milioni di persone si sono ammalate di tubercolosi. Un milione e mezzo sono morte, per lo più nei paesi poveri, con il 60% dei casi in Asia e il 24% in Africa. In Italia notizia proprio di questi giorni è la presenza di una “microepidemia” presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università Statale di Milano e una scuola media in zona città studi. In entrambe le strutture sono stati registrati due casi confermati di tubercolosi (Tbc), mentre nella scuola media altri dieci studenti sono risultati positivi ai test e sottoposti a profilassi con antibiotici, per evitare lo sviluppo della malattia. «Focolai tipici dei paesi a bassa endemia come l’Italia – come spiega a Linkiesta Giorgio Besozzi, pneumologo e presidente di “Stop Tb Italia” – proprio perché la popolazione è vergine nei confronti del contagio. Perciò quando si creano delle situazioni di rischio la risposta è molto rapida, soprattutto nei luoghi affollati come le scuole».
La rivista scientifica Nature il 10 ottobre dedica al problema tubercolosi uno speciale di approfondimento, mettendo in luce diversi aspetti ancora aperti: il vaccino ancora lontano, dopo anni di ricerca e sperimentazioni; la resistenza dei batteri responsabili della tubercolosi, nei confronti dei farmaci disponibili; la industrie farmaceutiche che non investono nella ricerca e sviluppo di nuovi antibiotici, a causa dello scarso profitto economico. Facendo il punto anche su diagnosi, trasmissione, latenza (la Tbc è una malattia silente, una volta infettato l’organismo ospite può non manifestarsi subito) ed epidemiologia globale della malattia.
Si torna a parlare di tubercolosi, insomma, una malattia associata ad altri tempi che in molti considerano in parte sconfitta e vicina a essere debellata. Ma non è esattamente così. Nonostante gli obiettivi dichiarati dall’Organizzazione mondiale della sanità la tubercolosi (come altre malattie infettive) continua a esistere e fare delle vittime soprattutto nei paesi in via di sviluppo. «Negli ultimi anni c’è stato un interesse crescente nei confronti di questa malattia» afferma Besozzi. «Dopo quasi venti anni di silenzio, in cui la ricerca scientifica è stata praticamente assente, e nessun nuovo farmaco o metodologia diagnostica è stato sviluppato, finalmente ora abbiamo ripreso a lavorare su questa strada. In laboratorio stiamo facendo passi da giganti per essere più sensibili verso la diagnosi, ma purtroppo mancano ancora i farmaci. Ci sono delle situazioni di multi resistenza preoccupanti, alcuni ceppi sono diventati intrattabili e i pazienti muoiono perché non abbiamo più risorse farmacologiche per curarli. Ceppi presenti praticamente in tutto il mondo. Questo è il problema più grosso, la sfida più grande per i prossimi anni».
A confermare quanto detto da Besozzi è anche il caso dei bambini milanesi colpiti da tubercolosi, che sono risultati infetti da un ceppo di batteri multiresistente ai farmaci, proveniente dal Nord est Europa. Secondo quanto si legge su il Fatto Quotidiano, le condizioni cliniche dei bambini sarebbero sotto controllo e al momento sarebbero in cura con cinque diversi farmaci. Il trattamento della Tbc prevede infatti la somministrazione contemporanea di più antibiotici proprio per contrastare la farmacoresistenza, in modo tale che se anche il batterio fosse resistente a uno o più farmaci almeno uno sul totale abbia effetto. Il problema è che i batteri diventano resistenti a sempre più farmaci e le combinazioni routinarie iniziano a diventare inefficaci. L’unica soluzione è appunto trovare nuovi farmaci.
Nonostante gli ultimi casi di cronaca e i dati che vedono Milano come la città in Italia con più casi di tubercolosi (18,6 casi contro i 7,5 su 100mila abitanti nazionali), non c’è da avere paura. La situazione è sotto controllo, i medici sanno bene come curare la malattia e tenerla a bada. «È una malattia con cui ancora dobbiamo convivere – spiega Besozzi – anche perché spesso si accompagna un ritardo nella diagnosi che contribuisce a diffondere l’infezione e creare queste microepidemie. Il problema è che essendo una malattia pressoché scomparsa alla nostre latitudini per i medici è anche complicato riconoscerla, perché non hanno più l’esperienza. Per questo a volte ci possono essere dei ritardi nel riconoscerla. Ma sappiamo benissimo come trattarla e contenerla, ci sono metodologie di prevenzione che si possono mettere in pratica subito e permettono di controllare l’infezione».
Quella di Milano però non è una situazione atipica, anzi. Quasi tutte le metropoli, soprattutto europee, come Londra o Parigi presentano un quadro simile. Il motivo, come spiega Besozzi, è che in queste grandi città si concentrano più fattori di rischio: sovrappopolazione, sacche di povertà e indigenza, immigrazione e casi di Hiv. «Tutti fattori che vanno a interferire con l’epidemiologia della tubercolosi creando delle situazioni di rischio che altrove non ci sono. Questo giustifica il tasso d’incidenza superiore alla media delle grandi città».
I dubbi sul fatto che la mattia potrà essere debellata sono pochissimi: «Assolutamente no – risponde il presidente di “Stop Tb Italia” – non ho dubbi su questo. Dobbiamo cominciare a conviverci e infatti ormai parliamo di controllo non più di eradicazione. Fino a quando non ci sarà un vaccino efficace come lo è stato per altre malattie non potrà mai essere debellata. E crearlo non è facile, gli esperimenti sembrano andare nella giusta direzione ma non siamo ancora arrivati al dunque, anche perché i trials impiegano anni prima di mostrare i risultati».
Il problema però non è più solo sanitario. La tubercolosi è una malattia che i medici sanno diagnosticare e curare, ma ogni anno uccide ancora milioni di persone nei paesi più disagiati. Il problema ormai è di politica sanitaria e sociale. Per limitare i danni è necessario che anche queste zone seguano lo stesso sviluppo che i paesi più ricchi hanno avuto nell’ottocento, quando in seguito al miglioramento delle condizioni di vita la malattia è andata in contro a una sorta di auto contenimento. «Io non limiterei la soluzione solo a una questione tecnica: vaccini, nuovi farmaci e strumenti diagnostici sono senz’altro fondamentali, ma già oggi con le armi che abbiamo potremmo affrontare il problema molto meglio di quanto non facciamo» conclude Besozzi. «Dobbiamo puntare a una ridistribuzione delle risorse sul pianeta, l’educazione sanitaria, la formazione del personale dei paesi ad alta endemia, la sensibilizzazione della popolazione a superare la vergogna della malattia. Una delle cose che vorrei che fosse evitato è proprio di riempire il mondo soltanto di farmaci e tecnologia, perché è controproducente. La resistenza ai farmaci l’abbiamo creata noi con la cattiva gestione della terapia dei farmaci. Se non c’è un sistema di educazione sanitaria che accompagna farmaci e tecnologia rischiamo soltanto di fare dei danni».
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