Fabrizio Saccomanni ha fatto un sogno. Si è visto, in una piovosa e grigia mattinata londinese, uscire dal n.11 di Downing Street, proprio accanto alla residenza del primo ministro, e mostrare ai fotografi, riuniti per l’annuale occasione, una valigetta consunta che un tempo era rossa, sempre la stessa dai tempi di Gladstone per lo stesso rito. Un sorriso alla stampa, la valigetta alzata per i flash, poi via ai Comuni a depositare davanti ai rappresentanti del popolo il bilancio della Corona. Il bilancio è sigillato, solo lui ne conosce le cifre prima di sottoporlo al voto: prendere o lasciare.
Ve la immaginate via XX Settembre con il palazzone fatto costruito da Quintino Sella con un cortile che sembra una piazza d’armi, circondato dai poliziotti che cercano di contenere protestatari e questuanti? I forconi, i senzatetto, gli antagonisti, ma anche i sindaci che agitano le loro fasce tricolore come vessilli di guerra. Potete vedere quella ventiquattrore della quale si sa già tutto e il contrario di tutto, il contenuto spiattellato sui giornali, allo scopo di “in-formare e formare cioè preparare e disporre” come sosteneva Martin Heidegger, in altre parole agitare, eccitare, persuadere e cavalcare l’onda? Per poi prendersela con l’assalto alla diligenza, con i clienti che sciamano in parlamento o con la famigerata Casta. Esattamente com’è avvenuto quest’anno, quando, ancora una volta, il governo è stato costretto a fare e disfare la tela di Penelope e poi chiedere la fiducia per non ricorrere all’esercizio provvisorio.
Quanti ministri del Tesoro (chiamati oggi, più pomposamente, dell’economia) hanno sognato la stessa britannica scena e si sono risvegliati nell’incubo quotidiano di Montecitorio e palazzo Madama. Westminster era quel che aveva in mente Beniamino Andreatta, il più inglese degli economisti democristiani, nel 1978 quando istituì la legge finanziaria che doveva essere composta idealmente del solo articolo 1, quello che fissa il saldo netto da finanziare (cioè la differenza tra entrate e uscite) e il limite del ricorso al mercato, cioè l’indebitamento annuo. Alla valigetta rossa del Cancelliere dello scacchiere faceva riferimento costante Luigi Spaventa, l’economista di sinistra che, da tutt’altra sponda, in quel clima di unità nazionale seguito al delitto Moro aveva contribuito a creare uno strumento più razionale per rendere conto del bilancio pubblico.
Il debito non era ancora così alto, arrivava sì e no al 70% del prodotto lordo, ma sia Andreatta sia Spaventa capivano che si sarebbe impennato ben presto per pagare a pie’ di lista le riforme sociali di quegli anni: le pensioni, la sanità per tutti, la cassa integrazione, la legge Prodi sui salvataggi aziendali, le regioni, insomma l’impalcatura dello stato assistenziale italiano così come lo conosciamo ancor oggi. Andreatta e Spaventa da allora in poi non hanno mai cessato di alzare il dito contro l’illusione del pasto gratis, cioè di poter sostenere la continua corsa della spesa pubblica senza pagare un prezzo, in termini non solo di entrate (cioè tasse) rimaste sempre, sistematicamente molto inferiori alle uscite, ma anche di efficienza e produttività. Entrambi erano ancora in prima fila, uno al centro e l’altro a sinistra, quando nel 1992 il debito pubblico arrivò al 120%, crollò la lira e con essa il sistema politico che aveva consentito a una intera generazione di spostare il conto sulla generazione futura. Hanno anche cercato un rimedio, si pensi alle privatizzazioni. Ma le cure peggiori del male sono state senza dubbio le manovre correttive.
Secondo le stime di alcuni economisti, tra i quali Paolo Savona, ne sono state varate in media due l’anno, una in corso d’opera in autunno (la legge finanziaria presentata entro il 20 settembre dovrebbe essere approvata entro il 31 dicembre) per tener conto dei cambiamento spesso radicali introdotti in parlamento, e l’altra in primavera, quando il tetto al disavanzo si rivelava inesorabilmente troppo basso rispetto alla realtà. In alcuni anni orribili, di manovrine ce ne sono state anche di più, come ad esempio nel famigerato 2011.
Il trattato di Maastricht e il passaggio all’euro hanno introdotto varianti, rigidità burocratiche, vincoli quantitativi come il limite del 3 per cento. Nella sostanza, però, non è cambiato molto a parte il nome (legge di stabilità) del tutto discutibile, perché il bilancio dovrebbe garantire non lo stato stazionario, ma le condizioni di una crescita regolare e sostenibile. Le parole hanno un senso; stabilità ne ha due, entrambi negativi. Esattamente come manovra correttiva che non ha mai corretto davvero nulla e non ferma la spesa.
Per lungo tempo è prevalsa la regola storica altrimenti detta “scurdammece ‘o passato”: i tagli e i risparmi sono fittizi perché si stabilisce ogni anno il fabbisogno dei vari comparti dello stato, poi l’ammontare viene ridotto di una certa quota, senza intaccare il livello precedente. Con la spending review il criterio doveva cambiare, perché l’idea è proprio di stabilire quali spese sono davvero necessarie incidendo anche sul perimetro dell’intervento pubblico. Ma il tentativo, messo in piedi per la prima volta da Tommaso Padoa Schioppa, non è riuscito: il governo Monti ha lasciato che si consumassero un grande esperto come Piero Giarda e un pugnace tagliatore di teste come Enrico Bondi, senza che nulla accadesse. E adesso anche il super-commissario Carlo Cottarelli è a rischio.
Più realista, nel 2009 e 2010 Giulio Tremonti ha impugnato la falce, realizzando i “tagli lineari”, cioè riducendo di una certa quota tutte le spese dei ministeri e della pubblica amministrazione. Per la prima volta, in questo modo, la spesa corrente in rapporto al prodotto lordo si è ridotta di circa un punto. Non molto, ma di per sé una inversione di tendenza che ha messo fine ai criteri del passato. Non solo, Tremonti ha cercato di fare l’inglese, con un documento economico-finanziario che stabilisce le grandi cifre da rispettare (crescita, inflazione, spese, entrate, consumi e investimenti) e poi una legge di stabilità coerente con esse, tale da limitare i margini di manovra parlamentari. Apriti cielo.
Tremonti è stato messo sulla graticola, non solo e non tanto dall’opposizione, ma dai ministri del suo governo, dagli uomini del suo partito, dallo stesso Silvio Berlusconi. I tagli lineari, che per la prima volta hanno ridimensionato davvero le uscite dello stato, gli sono costati il posto e lo hanno additato come il grande affamatore, il macellaio dello stato sociale. Lo scontro si è spostato dal cuore dei documenti economici alla periferia, cioè negli “allegati” o nei “collegati”, altre definizioni burocratiche-esoteriche per i provvedimenti concreti di politica fiscale, o nel “patto di stabilità interno” cioè i trasferimenti dallo stato centrale agli enti locali.
Così, siamo tornati all’antico già con il suo immediato successore Vittorio Grilli durante il governo Monti, ma soprattutto con Saccomanni. Risvegliatosi dal suo sogno, ha agito con una prudenza da politico più che da tecnico. Ha tenuto fermo il disavanzo al 3%, alfa e omega della presente legge finanziaria, ha tentato inutilmente di evitare la cancellazione dell’Imu, ma ha ritenuto inevitabile aumentare l’Iva. Dal lato della spesa non è riuscito ad affrontare l’annuale assalto alla diligenza (soprattutto da parte dei sindaci).
Nel bilancio che esce dal parlamento, criticato come sempre da tutti (a cominciare dalle parti sociali che non hanno ottenuto le agevolazioni richieste, per finire con l’Unione europea che non crede al rispetto del 3%) non c’è una direzione chiara. Si dice che getta le basi, crea le premesse (per gli investimenti, per una riduzione delle imposte sul lavoro), ma queste sono speranze. La certezza è che si ripropone l’eterna rincorsa tra entrate e uscite, tra tasse e spese. I comuni minacciosi hanno ottenuto mercede, Roma ha potuto rinviare il risanamento finanziario e la privatizzazione dell’Acea (l’azienda che distribuisce gas e acqua). Insomma, torna l’incubo che cancella l’utopia della valigetta rossa.
I ministri del Tesoro che hanno cercato di imitare il Cancelliere dello Scacchiere, dunque, hanno battuto il muso contro la ruvida realtà. Ci sono le resistenze di un corpo burocratico la cui cultura è incardinata sulla conservazione: esse agiscono all’interno dello stato centrale. C’è la disgregazione creata dal finto federalismo, un decentramento dei poteri senza vera responsabilità autonoma. E, soprattutto, c’è l’intero sistema assistenzial-corporativo, lo scambio tra benefici, consenso e potere che collega società civile e società politica.
Lobby, gruppi di pressione, sindacati esistono in ogni paese (anche in Cina). Ma una politica forte dialoga e tratta, mantenendo ferma la rotta. In Italia tutti i governanti sono stati troppo deboli compresi quelli che hanno ottenuto grandi maggioranze, come Berlusconi. Altro che strapotere della Casta. Eppure, il dilemma si ripropone: o la valigetta o il caos. Il modello britannico non è la panacea, la crisi fiscale dello stato è profonda ovunque, ma resta l’unico modo finora conosciuto per dare razionalità alla politica di bilancio, stabilire le responsabilità del governo e del parlamento nell’autonomia dei loro poteri. Quando ci sarà un ministro che esce da via XX Settembre con la sua ventiquattrore piena di cifre che nessuno conosce per recarsi alla Camera dei deputati unica istituzione depositaria del potere legislativo, ma senza facoltà di aumentare le spese, ebbene allora l’Italia sarà un paese più moderno e affidabile.
Nota
Come funziona il bilancio britannico.
Nel sistema britannico, vigono due fondamentali macro-regole alle quali il Budget deve conformarsi:
la Golden Rule, che prescrive che nell’arco temporale di un ciclo economico il Governo possa indebitarsi solo per finanziare investimenti (il bilancio corrente deve essere in pareggio in media nell’arco di un ciclo economico).
La Sustainable Investment Rule, che prescrive il mantenimento, nell’arco temporale di un ciclo economico, del debito pubblico (al netto delle attività liquide) ad un livello stabile e prudente.
Con il Budget presentato dal Ministro del Tesoro, data la previsione delle entrate a legislazione vigente, gli effetti di eventuali innovazioni normative e il vincolo posto dalle due macro-regole all’andamento del saldo del bilancio di parte corrente e del debito pubblico, vengono determinati i tetti di spesa complessivi per il triennio a venire.
Il voto parlamentare sul Bilancio dello Stato rappresenta un vero e proprio atto di fiducia nei confronti del Governo. Il Parlamento non ha il potere di modificare, in senso accrescitivo, le spese proposte dal Governo. Benché siano possibili riduzioni degli stanziamenti di spesa, solitamente il Budget è approvato senza sostanziali modifiche.
Prima della presentazione del progetto di legge di bilancio da parte del governo è previsto un dibattito generale sulle politiche di bilancio, ma non un voto finale di approvazione – delle policy – da parte del Parlamento.
Nell’ambito dell’organizzazione parlamentare britannica la Commissione bilancio (che è unica) si occupa di tutte le tematiche connesse al bilancio per aggregati mentre le singole commissioni di settore si occupano degli stanziamenti specifici della propria attività di competenza. In Commissione bilancio vengono ascoltati i Ministri, alcuni Alti Funzionari pubblici, i rappresentanti di imprese ed altri portatori di interesse.
Al Budget è associata la spending review, cioè una revisione su base triennale delle spese.
Tra Tesoro e ministeri di spesa vengono stipulato degli “accordi di pubblico servizio” che determinano gli scopi, gli obiettivi strategici, le risorse necessarie e gli indicatori di performance.
Fonte: Ministero dell’economia, Ragioneria generale dello Stato