C’è un’Italia che va a Pechino a chieder soldi

Imprenditori e funzionari in viaggio

Per chi vede l’Italia stando dall’altra parte di Eurasia, il contatto più immediato con il Belpaese è la carovana di figure istituzionali e imprenditoriali che vengono a Pechino cercando di intercettare il boom cinese. Solo nell’ultimo mese, contiamo un ministro, un direttore generale, un esercito di giovani imprenditori della tecnologia; al netto di Prodi e D’Alema, giunti separati più che mai (ma il primo, a onor del vero, a parlare di Africa in veste di inviato speciale dell’Onu per il Sahel). Poi è arrivato anche il sindaco di Milano, Pisapia, e chissà quanti altri ce ne siamo persi.

Sarebbe avvilente parlare di «questua», ma è indubbio che si cercano soldi cinesi. Ora, la domanda è molto semplice: domanda e offerta si incontrano? Cosa vuole comprare la Cina? E cosa ha l’Italia da offrire?«Sempre più aziende cinesi, soprattutto le grandi imprese statali, lavorano sull’aspetto non quantitativo degli accordi. Dire che cercano eccellenze nei settori dell’ambiente e dell’efficienza energetica, ormai è scontato. Ma c’è anche altro».

André Loesekrug-Pietri è uno dei soci e manager esecutivo di A-Capital, un fondo europeo specializzato nelle aziende di media capitalizzazione che vogliono attirare investimenti cinesi e, contemporaneamente, sbarcare oltre Muraglia. La specialità che rivendica è proprio quella di avere un pacchetto di co-investitori strategici cinesi che lui porta in dote alle aziende europee. Al suo attivo, storie di successo, come l’ingresso di capitali cinesi in Club Med e Bang & Olufsen.

Il giochino è apparentemente semplice, totalmente in linea con la strategia win-win che è ormai il mantra di Pechino quando sbarca in terra straniera per fare affari. «L’opportunità per i cinesi, oltre ai profitti legati all’investimento, è il vantaggio competitivo che, con l’acquisizione di eccellenze straniere, assumono sul proprio mercato interno. Il vantaggio per le aziende europee, invece, va al di là della semplice iniezione di liquidità. Perché lasciare entrare i cinesi in casa tua ti dà automaticamente accesso al loro mercato. E di questi tempi la Cina contribuisce al 40 per cento della crescita globale».

In cosa investono i cinesi?

Ma, prima di tutto, bisogna capire che cosa interessa all’investitore del Celeste Impero. «Per esempio investono nelle business school, finanziando programmi appositi sia in Cina sia all’estero che poi magari sono frequentati da studenti cinesi. Un altro settore importante è quello agroalimentare, dati i bisogni dell’urbanizzazione cinese. E poi tutto quello che ha a che fare con la società che invecchia – in questo caso, più servizi che medicine – e con i trasporti  In quest’ultimo caso, bisogna intendersi: quello che interessa è soprattutto la parte tecnologica. E quindi, torniamo all’ambiente e all’efficienza energetica». 
L’acquisto di Volvo da parte di Geely, nel 2010, non fu per esempio un buon investimento, visto da questo punto di vista; perché «da tempo ormai l’azienda automobilistica svedese non produce innovazione».

L’Europa è la destinazione preferita degli outbund direct investment (Odi) cinesi, poiché attira il 33 per cento di tutti i fondi destinati all’estero, che diventano il 61 per cento se si escludono le materie prime. E se si parla del settore dei servizi, siamo già al 51 per cento.
Negli investimenti diretti all’estero della Cina, le commodities continuano a fare la parte del leone, con circa 243 miliardi dollari, il 58 per cento del totale, nel corso del 2012. Ma quello dei servizi è il settore che ha visto la maggiore crescita: ben il 165 per cento, con 11 miliardi investiti l’anno scorso, rispetto ai 4,8 del 2011. È ancora una percentuale bassa, ma la trasformazione dell’economia cinese in direzione dei servizi e dei consumi interni dovrebbe rendere sempre più propulsivo il settore. Ed è qui che forse dobbiamo innestarci noi italiani, visto che di materie prime ne abbiamo pochine.

Per fare un esempio, il più grande affare nel settore dei servizi con la Cina come protagonista è stato l’acquisto per 2,6 miliardi dollari da parte di Dalian Wanda – il conglomerato cinema/teatro – della seconda più grande catena di cinema Usa: Amc Entertainment Holdings, 5mila schermi sparsi tra Stati Uniti e in Canada.

Torniamo all’istruzione, settore che per definizione significa qualità e innovazione. L’interesse cinese è qualcosa che va al di là degli Istituti Confucio, sparsi ormai in tutto il pianeta. Sempre più università occidentali, accompagnate dai propri governi, aprono sezioni cinesi o istituzionalizzano corsi di lunga durata: un esempio tra i tanti è l’accordo tra Harvard Busines School e Tsinghua di Pechino, l’università dove si formano i policy makers cinesi. Esiste un Harvard Center a Shanghai fin dal 2010, mentre la Columbia University si è installata a Pechino nel 2009.

Pregiudizi da superare

Tuttavia ci sono ancora molti stereotipi da superare, su ambo i lati. Loesekrug-Pietri ci mostra due immagini che usa nelle sue presentazioni: una pubblicata su un giornale europeo, l’altra da uno cinese. La prima è una vignetta inequivocabile: un Dragone che divora l’Europa. La seconda è la foto di un miserabile vicolo di qualche non identificabile città europea: il Vecchio Continente- nell’immaginario di molti cinesi – è nella povertà più nera.

In questa frizione tra “pericolo giallo” e “straccioni decadenti” si consumano parecchie opportunità.

Il problema, lato europeo, è soprattutto quello del trasferimento di tecnologia, che sta diventando sempre più sensibile e difficile. Il dilemma per le imprese del Vecchio continente è: «Se non vado in Cina non ho accesso a quel mercato; se ci vado, rischio di farmi copiare la tecnologia», spiega ancora il manager di di A-Capital. «Quindi spesso si preferisce l’investimento cinese in casa propria, che è più controllabile». L’esempio è quello di Volkswagen, che due anni fa ha scelto di non aprire un nuovo stabilimento in Cina proprio per questo motivo. 
«Al momento, resta ancora più sexy farsi comprare da Google piuttosto che da un’impresa cinese, perché sono scatole nere. Quindi – continua Loesekrug-Pietri – gli amministratori delegati cinesi devono capire il valore della trasparenza negli affari. Noi intermediari ci stiamo lavorando e loro, piano piano, lo stanno capendo».

Anche sulla sponda cinese non mancano i problemi. Per esempio, la necessità di approvazione politica degli accordi già fatti, mette le imprese d’oltre Muraglia in una posizione svantaggiata: molti contratti vengono poi annullati o tirati per le lunghe in sede politica e questo fa perdere credibilità a tutto il “sistema Cina”«Se un investimento va male – spiega Loesekrug-Pietri – non è solo l’impresa che ci perde, bensì tutta l’immagine della Cina. E questo rende tutti molti prudenti». Soprattutto il funzionario che deve metterci la faccia.

Per questo motivo, nella neonata Zona di libero scambio di Shanghai – un’area dove imprese cinesi e straniere potranno scambiarsi prodotti e servizi con pieni criteri di mercato – sarà probabilmente inserita la norma per cui l’approvazione di accordi sotto i 3 milioni di dollari dovrà essere concessa nel giro di breve tempo. Più che di liberalizzazione, si tratta di semplificazione. È necessario rendere tutto più prevedibile.

Ache se, come si può vedere, le soluzioni si trovano, restano tuttavia molte titubanze. Il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Maria Grazia Carrozza ci è parsa in questo senso piuttosto esemplare. E qui si parla di Italia più che di Europa. Durante la sua visita a Pechino in occasione del Forum dell’Innovazione, le abbiamo chiesto cosa conta di fare il governo italiano per favorire investimenti cinesi nelle nostre eccellenze universitarie (è azzardato pensare alla Bocconi, piuttosto che alla Normale di Pisa?). Ci ha risposto che dalle nostre parti c’è l’autonomia universitaria, per cui ogni istituto tiene con la Cina propri rapporti bilaterali. E poi «la Cina ha gli Istituti Confucio». Per poi chiosare che «il trasferimento di tecnologie comporta anche problemi di copyright». C’è forse un eccesso di precauzione, soprattutto alla luce di quanto fanno le varie “Harvard” sparse nel mondo.

In Cina ci sono 4mila studenti italiani e solo una ventina di ricercatori, mentre gli studenti cinesi in Italia sono 10mila (il 10 per cento del totale, prima componente non europea, terza in totale), ma le nostre istituzioni si stanno ancora chiedendo come fare permessi di soggiorno che corrispondano all’intero periodo di studi dei giovani stranieri.
C’è infine un problema concettuale: «Bisogna facilitare e al tempo stesso selezionare gli ingressi», dice il ministro, cioè fare arrivare gli studenti giusti e non i perditempo. Inoltre, gli esperti del ministero si chiedono: la lingua italiana deve essere un requisito necessario oppure no?

Tutte discussioni affascinanti, ma poco “agili” quando si tratta di competere a livello globale. Questa dell’istruzione è una storia che può essere applicata anche ad altri settori dell’economia italiana e così i cinesi si chiedono e soprattutto ci chiedono: «Perché dovremmo venire in Italia?» Abbiamo assistito alla conferenza del direttore generale del Tesoro, Lorenzo Codogno, giunto a Pechino per illustrare il “brand Italia” e proprio quella è stata la domanda più gettonata da parte del pubblico.
La risposta del funzionario italiano è stata abbastanza chiara: «Cercate di andare al di là del “political noise” (rumore/disturbo politico, l’ha chiamato proprio così) e considerate che in Italia abbiamo molte eccellenze tecnologiche e forza lavoro qualificata».

Chiaramente non emergono dettagli precisi su quali siano le imprese italiane sul mercato, tuttavia il direttore generale ha escluso i grandi colossi di Stato e le grandi banche, che «hanno già subito un grande processo di ristrutturazione negli anni Novanta e che non ci conviene vendere. In questi settori, gli investimenti sì, li accogliamo; ma non siamo interessati a cessioni». I nomi non si dicono, ma sono evidenti: Eni, Enel, Finmeccanica, dove il governo ha ancora una quota complessiva del trenta per cento che si tiene stretta. O così sembra.

In quest’ottica, può forse soccorrere (e tranquillizzare) un fatto: nel 2012, l’acquisto di quote di minoranza di imprese straniere, da parte di quelle del Dragone, ha superato in valore le fusioni e acquisizioni (m&a), totalizzando il 58 per cento degli Odi. Insomma, i cinesi cercano sempre più di entrare nei nostri gioielli di famiglia, piuttosto che di “soffiarceli”. Perché è più comodo anche per loro. Da un lato, la loro strategia precedente era stata percepita come troppo aggressiva e quindi aveva suscitato resistenze. Dall’altro, l’acquisizione lasciava spesso proprio in loro mani la patata bollente della gestione dei processi, delle risorse umane, delle relazioni sindacali. Così, gli investimenti del Celeste Impero si rivolgono spesso a singoli reparti o produzioni, lasciando alle vecchie proprietà il controllo di fatto.

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