C’è addirittura chi l’ha rinominato “calculator-gate”. Il caso scoppiato il 18 novembre scorso e comparso sulla prima pagina del New York Times, riguarda le linee guida per la gestione del colesterolo e la prevenzione di malattie cardiovascolari come ictus e infarto, pubblicate dall’American college of cardiology e dell’American heart association. Per la prima volta come ausilio per aiutare i medici a individuare le persone che necessitano di un trattamento farmacologico compare un calcolatore del rischio di infarto e ictus. L’algoritmo messo a punto dagli stessi cardiologi americani pare però funzionale male, con il pericolo di sovrastimare il rischio e sottoporre a terapia con farmaci antilipemici (per il trattamento del colesterolo), come le statine, anche persone che non ne avrebbero bisogno. Milioni di persone in più.
Il problema è che nella lista delle persone a rischio finiscono anche persone sane, come spiega al New York Times il cardiologo americano Steven Nissen, della Cleveland Clinic ed ex presidente dell’American college of cardiology: «Secondo questo calcolatore, un uomo afroamericano di 60 anni, senza fattori di rischio, con un valore di colesterolo totale di 150 mg/dL (il valore massimo è 200 mg/dL), pressione ottimale, non diabetico e non fumatore dovrebbe essere trattato con statine, benché apparentemente a basso rischio». Inserendo questi dati infatti, il calcolatore restituisce un rischio del 7,5 % a dieci anni. Stesso risultato per un uomo di bianco sano di 60 anni. «Stando così le cose – continua Nissen– ogni uomo afroamericano di 65 anni dovrebbe essere trattato con statine».
Ad accorgersi del clamoroso errore sono stati due professori della Harvard Medical School, Paul Ridker e Nancy Cook, che già un anno fa, durante la revisione delle linee guida (inviate a diversi esperti indipendenti dall’NIH per un parere), avevano segnalato che qualcosa non andava. Nonostante questo i cardiologi delle due associazioni americane sono andati avanti lo stesso. Alla vista delle nuove raccomandazioni i due professori di Harvard hanno allora verificato l’effettiva funzionalità del calcolatore prendendo in esame tre grossi studi condotti su migliaia di pazienti e seguiti per almeno dieci anni. In questo modo è stato possibile confrontare gli eventi realmente accaduti durante il tempo considerato, e quelli previsti dal calcolatore. Il risultato è stato una sovrastima del rischio da parte del calcolatore, del 75-150 per cento. Lo studio di Ridker e Cook è stato poi pubblicato in un commento sulla rivista Lancet.
Il pericolo, per esempio, è che per un uomo con un rischio del 4%, risulti un rischio doppio, dell’8%. Se si considera che le linee guida suggeriscono il trattamento con i farmaci solo quando il rischio supera il 7,5%, ed è consigliato per la persone il cui rischio è del 5%, si capisce come che in questo caso l’errore faccia una bella differenza. Il problema secondo quanto ha dichiarato Michael Blaha, della Johns Hopkins University, al New York Times è che i dati con cui è stato costruito il calcolatore sono basati su studi sulla popolazione di qualche decennio fa. Ma le persone e il loro stile di vita in questi anni sono cambiati parecchio, influendo anche sull’esordio degli eventi cardiovascolari.
Di contro i responsabili delle linee guida americane hanno risposto che le popolazioni prese in esame dai due esperti di Harvard siano troppo sane e abbiano creato un errore di valutazione. E restano cauti sulla decisone da prendere: «Dobbiamo vedere se le preoccupazioni sollevate sono reali – ha riferito al New York Times, Sidney Smith direttore del comitato – e verificare se sono davvero necessari dei cambiamenti».
Il timore però è che ora le linee guida inizino a perdere credibilità. «Cosa fare, se rivederle o meno, è una decisione solo politica» spiega a Linkiesta Alberico Capatano, presidente della Società europea di aterosclerosi. «Io comunque sono molto contrario, perché in questo modo si rischia di medicalizzare tutti, quando invece basterebbe modificare lo stile di vita o le abitudini alimentari piuttosto che prendere un farmaco. A volte questi accorgimenti sono sufficienti per prevenire problemi cardiovascolari legati a un eccesso di colesterolo. Al di là di questo episodio, comunque, in America c’è un eccesso di medicalizzazione».
In Europa però la situazione è ben diversa come chiarisce Capatano: «Le nostre linee guida sono molto più articolate e precise ed è anche diverso il sistema con cui viene stimato il rischio. Negli Stati Uniti un rischio del 7,5% corrisponde a un rischio del 2,5% in Europa. Questo perché per la valutazione gli americani tengono conto degli eventi fatali (come la morte) e non fatali, mentre noi prendiamo in considerazione solo gli eventi fatali. Inoltre in quelle americane non vengono considerate diverse popolazioni che hanno un alto rischio cardiovascolare, come chi soffre di nefropatia. E questo è molto strano conoscendo le persone, autorevoli, che hanno lavorato per la stesura di queste indicazioni».
Va anche detto che si tratta del primo calcolatore usato in tal senso, come sottolinea anche Capatano, e necessariamente debba essere perfezionato. Le stesse organizzazioni che le hanno pubblicate hanno ammesso che il metodo non è perfetto e che deve essere aggiornato e migliorato di volta in volta. Al giorno d’oggi, come suggeriscono le nuove indicazioni americane, non vale più la regola del valore limite universale e uguale per tutti da rispettare. È necessario valutare il singolo caso, di volta in volta, e ridurre il livello personale di colesterolo di un certo valore (il 30-50% a seconda del rischio), con il consiglio del medico. Il messaggio dell’American college of cardiology e dell’American heart association in definitiva è che pazienti e medici riprendano a parlare e discutere le opzioni di trattamento, piuttosto che seguire ciecamente un calcolatore.