«Fuck off Google». Il messaggio dei contestatori che a inizio dicembre hanno assalito un Google bus rende Black Mirror, la serie TV sci-fi distopica inglese, del tutto superata nel suo immaginario. In un paio di occasioni uno sparuto gruppo di attivisti, il cui nome è «Heart of the City», si è accanito contro quello che considerano un simbolo di iniquità e classismo: il bus che trasporta la tech élite dalla città di San Francisco a un’ora di strada verso sud, nel cuore della Valley. Nessuno vuole abitare a Palo Alto o in zone sperdute e polverose, tutti preferiscono il fascino di una delle città più popolate d’America. A fissare i finestrini oscurati, a terra, ci sono uomini e donne con striscioni e tamburi. Sono quelli che non riescono a pagare l’affitto perché l’aumento dei prezzi degli immobili cresce raggiungendo cifre esorbitanti — il costo medio è di 3500 dollari per un bilocale — causato da questa «razza a parte» che può permettersi di spendere e che con il prestigio porta anche prezzi più alti. La comunità «separata e diseguale», come la definisce al Guardian Dave Whitekaer, un autoproclamato poeta beat ultrasettantenne che a maggio ha fracassato una piñata a forma di G-Bus: tutti applaudivano, dice. Poi, dopo qualche mese, qualcuno ha lanciato un sasso. Un vetro si è rotto. Il problema è diventato visibile.
Al momento i contestatori sono un manipolo di spiantati che considera le aziende tech come i principali responsabili dei propri problemi. Nella retorica degli «Occupy Google» si chiede alle aziende di pagare un dollaro per poter usare le fermate pubbliche del bus. In un manifesto si leggono le motivazioni dello scontento: «Mentre voi vivete grassi come maiali che si abbuffano 24/7, noi raschiamo il fondo dei nostri portafogli per sopravvivere in questo mondo costoso che voi avete contribuito a creare» e ancora «non siete vittime innocenti. Senza di voi i prezzi delle case non sarebbero aumentati e noi non saremmo costretti allo sfratto». C’è anche un terzo argomento, oltre all’invidia sociale e alla gentrificazione, ed è la parte meno convincente, quella pseudo-luddista vagamente anacronistica: «Si potrebbe credere che le tecnologie da voi create servono per il miglioramento della vita di tutti. Ma in realtà i beneficiari dello sviluppo tecnologico sono inserzionisti, ricchi, potenti e analisti della NSA». Della stessa opinione, con argomenti più sofisticati, George Packer sul New Yorker: «Dopo decenni in cui il paese è diventato sempre meno equo, la Silicon Valley è uno dei posti più iniqui d’America». La tesi è che l’egocentrismo dei ventenni tecno-entusiasti ha provocato uno shift di valori al ribasso. I giovani informatici vampirizzano la città europea e piena di valori?
La verità è un po’ diversa. Secondo l’istituto economico della Bay Area ogni lavoro nel settore tecnologico crea un addizionale di 4.3 punti nel mercato del lavoro della città, diminuendo i disoccupati ai minimi livelli dell’intera nazione e del mondo occidentale. Se gli ingegneri se ne andassero provocherebbero un tracollo nell’economia cittadina che li ospita, e in molti verrebbero licenziati. Una cosa però è vera, gli affitti sono aumentati ed è in parte colpa della gentrificazione, cioè di quel fenomeno di riqualificazione urbanistica che avviene quando una classe ricca si trasferisce in quartieri poveri. Ma il problema è anche di disponibilità immobiliare. Come scrive il SFgate in un articolo in difesa dei techie: «Lo scorso anno sono stati aggiunti 68 mila nuovi posti di lavoro e solo 120 unità abitative».
Da una parte c’è lo spirito Bohémienne che animava la città fino a ieri, facendole guadagnare il soprannome della Parigi d’America —o la versione che ne hanno gli americani, fatta di poeti, artisti e senzatetto — dall’altro lato quelli che negli ultimi vent’anni ne hanno cambiato radicalmente l’architettura ideando tutti i dispositivi del contemporaneo: gli ingegneri informatici.
L’invidia sociale c’entra molto, a un problema reale (l’impossibilità di sopravvivere alle spese) si trovano soluzioni implausibili (sbattiamo fuori i ricchi). I pendolari di San Francisco, costretti mezzi pubblici affollati, invidiano le comode navette bus e le considerano simboli di alienazione e auto-segregazione. Se ne può comprendere lo stato d’animo ma il problema è Google? Come scrive il SF Chronicle in «Why we’re invisible to Google riders», il risentimento degli abitanti di SF è dovuto alla mancanza di impegno civico della comunità elitaria del settore tech. Anziché migliorare la situazione dei trasporti pubblici si trincerano in comode navette di prima classe. «Il bus di Google è il nostro promemoria quotidiano», conclude l’articolo.
Ma quand’è stato esattamente che i cittadini di San Francisco hanno iniziato a considerare Google un soggetto politico responsabile della condizione della città e a rivolgergli accuse che dovrebbero indirizzare al sindaco? Se la rete stradale è fatiscente e non ci sono abbastanza locali sfitti deve occuparsene il comune, non Google. (Si potrebbe contro-obiettare che se hai pretese di rendere il mondo un luogo migliore forse ti conviene non sottovalutare la questione, e investire nella città in cui hai scelto di stare. È la tesi del documentario Inequality for all, di Robert Reich). A San Francisco ci sono 1826 startup che contribuiscono al 30% della crescita annua di posti di lavoro nel settore. Solo un anno fa il sindaco di San Francisco, Ed Lee, elogiava Square, SoundCloud, Pinterest e la lunga lista di startup che con la loro sola presenza nella città vi apportavano prestigio dicendo: «Voi fate rinascere la nostra città, rendendola vitale e forte». Oggi deve difendere Google e Facebook dagli attacchi di chi non può più permettersi di vivere nella città. E ha ragione, non sono le grandi aziende ad avere un problema: è lui a doversene occupare.
Non hanno gli iPad? mangino brioches!
I primi della classe non piacciono a nessuno, figuriamoci se hanno successo pressoché in qualsiasi campo. L’anno scorso David Sacks, CEO di Yammer, ha organizzato un party da diversi milioni di dollari per il suo 40° compleanno. Una festa a tema Marie Antoinette con performance di Snoop Dogg. Si chiamava: «let them eat cake». Era solo l’inizio.
A novembre si è parlato del problema dell’arroganza della Silicon Valley. Il riferimento diretto della questione è Balaji Srinivasan, un brillante e giovane imprenditore che ha inneggiato al secessionismo della Valley. Srinivasan ha proposto al congresso di Google una «Ultimate Exit» per l’indipendenza degli imprenditori, uniti contro la regolamentazione governativa percepita come rigida, arcaica e che impedisce lo sviluppo. Le sue idee si vanno ad aggiungere a quelle dell’investitore Peter Thiel che ha teorizzato il “Seastead” movement, un progetto utopico (?) di nazioni su isole artificiali nell’Oceano. Il giusto bilanciamento tra geek e hippie, tra i sandali di Steve Jobs e l’insofferenza alle regole di Google.
Farhad Manjoo sul Wall Street Journal ha commentato: «il complesso di superiorità della Silicon Valley è sicuramente una cosa brutta a vedersi. Mentre il settore tech è dimenticato dell’esplosione della bolla dot-com, i suoi luminari sono diventati sempre più fiduciosi nella loro capacità di plasmare il futuro. E ora sembrano aver perso tutta umiltà». Sicuramente dal punto di vista finanziario e culturale la Silicon Valley è non solo all’avanguardia ma anche un modello di business che si cerca di incoraggiare anche in altri parti, ma le critiche non possono essere liquidate come illegittime. Majoo scrive: «Tutti sanno che la Silicon Valley mira a conquistare il mondo. Ma se vogliono avere successo, gli abitanti della Valley sarebbe saggio se fingessero di essere più umili».
Lo scorso novembre Greg Gopman, CEO di AngelHack, una startup che genera altre startup definita da ValleyWag impietosamente come: «una compagnia che non offre apparentemente nessuna utilità o valore al nostro pianeta», ha dato il meglio di sé. Gopman si è sfogato sulla propria bacheca Facebook scrivendo uno status — prontamente rimosso, ma ormai virale — che fa così: «Sono appena tornato da SF. Ho viaggiato in tutto il mondo e devo dire che non c’è niente di più grottesco di chi cammina nella Market St. di San Francisco. Perché il cuore della nostra città debba essere invaso da folle di barboni, spacciatori e immondizia non ho idea. Ogni volta che ci cammino il mio innamoramento per la città muore un po’». Gopman riesce a fare di peggio continuando il discorso molto politically incorrect e sempre più a destra: «La differenza con altre città cosmopolite è che la parte inferiore della società rimane ai margini. Vendono piccoli ciondoli, se ne stanno tranquilli, e in generale fuori dalla nostra vista. Si rendono conto che è un privilegio essere nella parte civilizzata della città e si considerano ospiti. E va bene così». Gopman contrappone signore sdentate che vivono in scatole di cartone alla working class, chiedendo, in modo molto esplicito, una riqualificazione della città. Gli attacchi sono così duri, da più fronti, che è costretto a scusarsi; ormai è virale. Un cittadino che si lamenta della spazzatura è una cosa, ma se lo fa un privilegiato, e si riferisce ai senzatetto come «degenerati», suona come un «dategli-le-brioches», o «Se non hanno pane, che mangino la torta».
La rivincita dei nerd per qualcuno ha l’aspetto della vendetta. Per anni considerati i primi della classe ma gli ultimi da invitare alle feste, oggi si spostano in bici verso comode strutture, poggiano il loro laptop su tavoli in terrazze e bevono caffè da mug con il logo di Twitter o Google. A distinguerli da avventori di Starbucks è lo stipendio, quasi sempre molto alto, che permette loro una vita riparata tra campi da golf, fontane di M&M’s, massaggiatori, attici open space; insomma: uno stile di vita tra il rapper e l’hipster.
È un’evidenza incontrovertibile che gli ingegneri e i matematici sgraditi ieri, occupino oggi, sotto la spinta dell’Economia del Sapere e di qualche biografia pop, le pareti delle nostre camerette virtuali. Sono le nuove star. «Chiamate il fenomeno Geek Chic, trendy o come vi pare: la tecnologia astratta ormai è sexy, il matematico un eroe commerciale», scriveva David Foster Wallace riferendosi ai film che riabilitavano nell’immaginario di tutti noi l’interesse verso persone che credevamo fossero noiosissime. Questa nostra sincera ammirazione non deve impedirci di poter formulare critiche serie, anche se, è chiaro, i soggetti forti rimangono le aziende che plasmano il nostro mondo. Prima di iniziare una guerra che non possiamo vincere, cioè prima che Google e i giganti abbiano costruito un esercito di robot pronti a sostituirci, e diano vita a comunità su isole nel Pacifico che ci escludano completamente, rette da ideologie radicali-libertarie noi ci portiamo avanti: c’è posto libero?