Quando nella notte del 6 dicembre scorso la Dieta ha approvato la controversa legge sul segreto di Stato, i parlamentari erano reduci da un dibattito carico di tensione e una folla di manifestanti protestava ormai da giorni all’esterno della Camera Bassa di Tokyo.
Per l’ala più liberal dell’opinione pubblica giapponese la nuova norma sembra l’ultimo tassello di una strategia autoritaria che il premier Shinzo Abe sta perseguendo fin dall’inizio del suo ultimo mandato, iniziato il 26 dicembre di un anno fa: «La legge è stata redatta in termini estremamente vaghi – scrive in un editoriale il quotidiano di centro-sinistra Asahi Shimbun – e apre la strada a possibili abusi contro il diritto all’informazione dei cittadini iscritto nella Costituzione». Il giornale scrive senza mezzi termini che, se la norma fosse stata in vigore due anni e mezzo fa, ai tempi del disastro della centrale atomica di Fukushima, il governo avrebbe potuto tenere la popolazione all’oscuro dell’impatto della catastrofe.
Contro la legge sul segreto di Stato si sono mobilitate personalità come lo scrittore Kenzaburo Oe e l’attrice Norika Fujiwara: il punto, dicono gli attivisti, è che la norma non classifica chiaramente cosa s’intenda per segreto di Stato, lasciando campo libero a una commissione composta da tre diversi organi dipendenti dallo stesso governo per decidere quale sia il materiale non divulgabile in materia di lotta al terrorismo, affari esteri, interni, e difesa. Le pene per chi trasgredisce possono arrivare a 10 anni di prigione e oltre 10 milioni di yen di multa (circa 70mila euro).
Il governo ha fatto coincidere l’approvazione della legge con il debutto di un nuovo organo, il Consiglio di sicurezza nazionale, incaricato di accelerare le reazioni diplomatiche e militari di un Paese che sembra spesso paralizzato dal dibattito parlamentare, da sempre testa a testa con l’Italia degli anni ’70-‘80 per il numero di continui cambi di governo.
Altri tempi: allora il Giappone era in crescita continua, oggi deve vedersela con l’ascesa della Cina, un colosso che Abe contrasta a colpi di retorica patriottarda e continui aumenti del budget per la difesa. Tokyo ha annunciato nei giorni scorsi un piano per incrementare le spese militari e riformare le forze armate, al centro del grande complesso di colpa che agita sottotraccia la coscienza nazionale giapponese dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Mentre da un lato la Costituzione pacifista post-1945 esclude il mantenimento di un esercito, la definizione «Forze di autodifesa giapponesi» è solo un imbarazzato giro di parole per indicare uno dei più moderni eserciti del mondo, che nei piani del premier si doterà presto di una nuova forza anfibia (di fatto, un corpo di marines), 28 nuovi F-35, 52 veicoli anfibi d’assalto, più vari altri tipi di armamenti. Tutto questo mentre montano le tensioni tra Tokyo e Pechino in merito a un pugno di isole disabitate, la Cina dichiara unilateralmente una zona di identificazione per la difesa aerea, e Shinzo Abe non fa mistero del suo intento di riformare la Costituzione.
Abe aveva dichiarato forte e chiaro all’inizio del mandato che Tokyo «non avrebbe mai più accettato le provocazioni cinesi», un intento messo nero su bianco anche nel suo libro “Verso una bella nazione”: la mia visione per il Giappone, bestseller nazionale nel 2006. Da allora, il primo premier giapponese nato dopo la Seconda Guerra mondiale non ha mai smesso di solleticare gli umori di quella parte di popolazione che vuole farla finita con i continui mea culpa per l’espansionismo e il conflitto scatenato nel Pacifico: Shinzo Abe ama circondarsi di intellettuali come Naoki Hyakuta, romanziere ultranazionalista autore di libri da milioni di copie come L’uomo che chiamavano pirata, storia di un giovane che indaga sul passato e le motivazioni del nonno kamikaze, e Michiko Hasegawa, una saggista che nel suo libro Ma che cos’è questa cosa che chiamano democrazia? indica nei diritti dell’uomo, nella sovranità popolare e nel pacifismo non i fondamenti della Costituzione del 1947 ma «l’origine della distruzione del Giappone». Entrambi, Hyakuta e Hasegawa, promossi sul campo, visto che da qualche settimana fanno parte del consiglio di amministrazione della Tv pubblica giapponese.
Per cambiare la Carta costituzionale, Shinzo Abe dovrebbe ottenere i due terzi dei voti da entrambe le camere del Parlamento e poi vincere un referendum popolare, un obiettivo che tutti i politologi giapponesi considerano estremamente difficile da raggiungere.
Ma alla luce della norma sul segreto di Stato, della riforma dell’esercito e della sua spregiudicata offensiva intellettuale, tutte le accuse rivolte al primo ministro di voler «cambiare il Giappone senza passare direttamente per una modifica della Costituzione» appaiono sempre più consistenti.