Ci sono quelli che navigano con un occhio fisso alla classifica vendite, quelli che mettono da parte una porzione del proprio tempo e dei propri soldi per dedicarla a pochi e selezionati dischi, possibilmente quelli meglio recensiti. Ci sono quelli che hanno aspettato per anni che uscisse l’ultimo disco dei Pearl Jam, poi è uscito e gli ha fatto schifo ma non l’hanno detto a nessuno. Ci sono quelli che urlano ai quattro venti che gli Arcade Fire hanno fatto un altro capolavoro quando non hanno nemmeno finito di ascoltare il primo album. Ci sono quelli che si fanno consigliare i dischi dal solito amico impallinato, e poi, in qualche modo, se li fanno piacere.
E poi ci sono quelli come noi, che sprecano interi pomeriggi a rovistare nel bidone senza fondo delle etichette indipendenti, ascoltando tonnellate di robaccia, nella cocciuta convinzione che le ossa migliori siano quelle sotterrate in profondità. Perché i dischi più ispirati i Muse li han fatti quando nessuno se li filava e allora tanto vale scoprire i nuovi Bloc Party prima che derapino nell’autoreferenzialità spinta.
È un lavoro sporco, a tratti scellerato, ma ci piace farlo. O almeno provarci: abbiamo scartato centinaia di caramelle immangiabili, ma siamo riusciti metterne da parte dodici che meriterebbero di occupare i salotti di ogni casa.
Poi, siccome sappiamo che dentro ogni appassionato di musica si nasconde un acerrimo alcolista, abbiamo abbinato a ogni disco una bevanda alcolica per fruirlo al meglio. Prosit.
NGHBRS: 21 rooms
Vengono da Long Island, il nome è una contrazione senza vocali, il primo disco l’hanno registrato in una villa infestata appartenuta a un poeta americano dell’Ottocento, e visto che ancora non risultavano abbastanza hipster, hanno girato un videoclip utilizzando solamente Instagram. Insomma, dovrebbero vincere la palma di band lisciapelo dell’anno. E invece sotto questa coltre di fronzoli si nasconde un debutto spiazzante, variegato, una commistione inedita di rock, indie, blues, punk e tutti i “post” che ci volete aggiungere, tenuta insieme da un frontman di peso che disegna linee vocali provvidenzialmente originali. Forse una delle cose migliori capitata alla musica alternativa da qualche anno a questa parte.
Bevanda abbinata: Aglianico di Cerasole, però a litri.
Grandfather: In Human form
Granitico, chitarroso, profondo. Il quartetto di Brooklyn torna in pista, a tre anni distanza dall’esordio, con un disco che spinge ancora di più sul pedale dell’intensità emotiva e su una violenza sonica ritmata ed esplosiva. Per arrivare a questo livello i quattro hanno vissuto per mesi in un edificio industriale (mangiando toast, dormendo su divani sfondati e usando come doccia un tubo di plastica montato su un’asta di un microfono) e hanno piazzato in cabina di regia e mixing dei mostri del suono come Alex Newport (Mars Volta, Melvins, Locust) e Howie Weinberg (Nirvana, Soundgarden, Smashing Pumpkins, Deftones). In Human Form è quel buio che quando chiudi gli occhi ti assale, in crescendo.
Bevanda abbinata: assenzio, magari spruzzato di psicofarmaci, e senza compagnia.
Papermoons: No Love
Non so voi, ma nel decennale dall’uscita di Transatlanticism noi abbiamo il cuore ingolfato di nostalgia. Abbiamo passato mesi con il braccio fasciato a lutto, poi siamo inciampati nei Papermoons, un duo indie-folk-alternative (decidete voi il genere) di Austin che al secondo disco danno prova di saper disegnare paesaggi sognanti con gli stessi pastelli di Ben Gibbard e compagnia. Le dieci canzoni di No Love sono così ispirate che potrebbero funzionare anche suonate chitarra e voce da un ragazzino nella sua cameretta, ma siccome è pure arrangiato con i guanti, arriva a solleticare la troposfera dove galleggiano i capolavori senza tempo.
Bevanda abbinata: birra in bottiglia ghiacciata, sorseggiata senza fretta in una notte d’estate.
The Lonely Forest: Adding Up The Wasted Hours
A proposito di Death Cab Dor Cutie, Chris Walla ha da poco lanciato un’etichetta, la cui punta di diamante è una band di quattro ragazzi di Anacortes, WA, che risponde al nome di The Lonely Forest e che offre la migliore qualità di indie-rock reperibile sul mercato. Arrivati al quarto disco, i TLF mostrano la pelle dura delle band rodate, sfornando undici pezzi che resuscitano quel rock epico, trasognato e chitarroso di fine anni ’90, lo vestono a festa con le sonorità di oggi e lo sguinzagliano a far brandelli della marmaglia cialtrona che intasa l’indie degli ultimi 10 anni. In un mondo perfetto, il pop sarebbe questo.
Bevanda abbinata: aperol spritz, almeno due di fila, senza salatini.
Violent Soho: Hungry Ghost
I migliori chitarroni del quinto continente. Dopo un esordio che era più un prova generale di debutto e un secondo album bagnato dalla produzione di Thurston Moore, il quartetto australiano amante delle canne a due cartine e del beveraggio da party, torna con un terzo LP che suona come una festa abrasiva organizzata in garage. Voce nasale, capelli lunghi, yeah che volano, skate in mano e Marshall testa e cassa d’ordinanza: il dettame anni ’90 del pulito-distorto-pulito-distorto e ritornello urlato è eseguito a menadito. E se mentre li ascoltate non vi viene immediatamente voglia di spaccare qualcosa per strada o almeno di lanciare un rotolo di carta igienica sull’albero del vicino, non meritate di avere avuto un’adolescenza.
Bevanda abbinata: Jägermeister, trangugiato direttamente della bottiglia.
Captain, We’re Sinking: The future is cancelled
Questi quattro amabili cazzoni della Pennsylvania che si fanno fotografare in mezzo a un prato con un ascia in mano, sono riusciti a scodellare dodici canzoni che sono il sunto di tutto ciò di cui oggi ha bisogno un album punk per farsi voler bene: riffini su quattro note alte e un cantato sguaiato, rullate e stopponi sulle battute giuste, arpeggi su tre corde e coretti, basso liquido e ritornelli che si aprono come le birre con la pizza. Il tutto concentrato in 37 minuti e 56 secondi a cuore aperto. Un disco degno di entrare dritto in quell’elite di album “fatti di malessere, per farti star bene”.
Bevanda abbinata: birre in lattina da 33 comprate al discount, una via l’altra, e meglio se calde.
Owen: L’Ami du Peuple
Mike Kinsella è il compagno di liceo che avresti voluto riuscire ad odiare. Secchione ma belloccio, talentuoso ma comodo nelle retrovie, uno di quelli che qualunque cosa fa, la fa sempre e comunque meglio di te. Dopo aver dato la paga a tutti come batterista e aver praticamente inventato un genere (il twinklecore), Kinsella va a rompere le uova nel paniere ai cantautori alt-folk che tanto vanno di moda oggi. Nel progetto Owen, Kinsella fa tutto da sé: scrive, suona tutti gli strumenti e canta. L’Ami du Peuple è il suo primo lavoro veramente maturo, ed è così solido ed equilibrato che potrebbe convincere Dave Grohl a uscire dalla propria zona sicura, per tornare a rischiare.
Bevanda abbinata: caffè alla valdostana in grolla.
The Darcys: Warring
Musica per palati finissimi. Li abbiamo già spinti e sostenuti su queste pagine e combatteremo questa crociata fino a quando il quartetto art rock di Toronto non raggiungerà una fama tale da essere invitato come resident band al festival annuale dedicato a Jane Austen. Warring è il loro terzo disco, quello della conferma, frutto di tre anni di lavoro e di una laboriosità sonica ed emotiva da opera. Un trionfo iper-romantico, che produce calore nell’anima anche quando la trama degli arrangiamenti è lasciata agli strumenti sintetici e a un cantato che si avvolge nei falsetti. Per tutta la sua durata, Warring ti isola dall’ansia, convincendo le tue sinapsi che il futuro può andare a farsi fottere e che anche il fallimento può essere un’ottima opzione.
Bevanda abbinata: vodka con scaglie d’oro in sospensione.
The Bronx: The Bronx
Quel rock sudato, incazzato, inzuppato nelle pozzanghere dei sobborghi, non è cosa facile a farsi. Il rischio di finire sotto lo schiacciasassi del “Non ci provare nemmeno, a spacciare rock’n’roll distorto per roba non tagliata” è enorme. Ma i Bronx, oltre ad avere un nome cazzuto come pochi, hanno alle spalle cinque dischi, quasi tutti con il medesimo titolo (The Bronx, appunto). Dopo essersi scrollati di dosso tutti i fan che avevano con due album di musica mariachi (true story), con questo sesto lavoro i Bronx rischiano di rimorchiarne dieci volte tanti. È il disco da mettere sul piatto quando avete voglia di tirar giù le pareti di casa a manate, un’irresistibile ginocchiata nelle palle a chi va dicendo che la musica urlata non è orecchiabile.
Bevanda abbinata: Tavernello e gin shakerati in parti uguali.
O’Brother: Disillusion
Lo sludge e la matematica, il post rock e l’ambient, il post hard-core e le venature emozionali sono le coordinate che la band di Atlanta ha scelto di seguire per generare un’alchimia di suoni allo stesso tempo glaciali e caldi. Il secondo disco degli O’Brother è una furia passivo-aggressiva di pensieri malati che ti rimbalzano contro le pareti del cervello e piano piano arrivano ad esploderti davanti agli occhi, mettendoti addosso la voglia di sputare tutto lo schifo controvento. E poi respirare di nuovo. La voce è il pendolo che fa oscillare le emozioni dell’ascolto tra vulnerabilità e violenza, le trame di basso e il drumming ti accompagnano in un saliscendi tra spazi celesti e infernali, e le distorsioni, che arrivano esattamente quando servono, gridano tutta la fragilità del momento con bestemmie fatte di carta vetro.
Bevanda abbinata: un white russian infinito, che mentre leviga la gola manda in pappa il senso critico.
The Cabs: Regenerative Landscape
Triste storia quella di questo gruppo math-rock giapponese. Dopo un EP a dir poco scheggiadenti, il disco di debutto esce già praticamente postumo, visto che prima di arrivare nei negozi il cantante ci ha lasciato le penne. Aspettando di capire se la band avrà un futuro, ascoltatevi questo Regenerative Landscape. E no, tranquilli, non siete razzisti se vi scappa da ridere per la voce di un morto, perché il cantato in giapponese, tra quei saliscendi di chitarrine spezzate e le sfuriate di batteria, fa quell’effetto lì. Poi però, superato l’imbarazzo iniziale, il disco decolla e vi troverete a riascoltarlo da capo.
Bevanda abbinata: sakè ghiacciato, da buttare giù al vetro o a palombaro in una media chiara.
Crash Kings: Dark of the Daylight
C’è poco da fare, il 2013 è stato l’anno dei duo. Le band chitarra-batteria spuntavano come eritemi, e nel frattempo centinaia di bassisti restavano col culo sul marciapiede. I Crash Kings hanno deciso di portare di qualche grammo la bilancia in pari, liberandosi della chitarra a favore delle quattro corde. Ruffiani e sfacciati come pochi, i due di Los Angeles hanno inciso un disco al di sopra delle proprie possibilità, in cui le sovraincisioni sono vere e proprie colonne portanti. Ma superata l’inevitabile antipatia, è presto chiaro che l’amalgama di riff anni ’70, piano-pop e impennate vocali vagamente Cornelliane proposto dai CK non si trova nello spaccio dietro casa, e a volte, nemmeno nelle botteghe più esclusive.
Bevanda abbinata: birra fredda sottocosto in bicchieri di plastica.
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