La fine rabbiosa dell’assistenzialismo italiano

I numeri alle radici della protesta

C’è chi inneggia ai “nuovi sanculotti” come Lanfranco Pace sul Foglio, chi piange sui ceti medi impoveriti come Marco Revelli sul Manifesto, chi agita il sogno di una spallata antisistema degli antagonisti uniti, come Gad Lerner sulla Repubblica: la cultura gauchiste tenta una riscossa senile. E c’è chi fa l’entrista come l’estrema destra di Casa Pound nella quale si riconosce il forconatore in Jaguar Danilo Calvani, lo stesso che nel gennaio 2012 portò i trattori al Colosseo e inneggiava a «uno stato guidato da una commissione retta dalle forze dell’ordine». Come sempre quando scoppia, una jacquerie è difficile da decifrare, sembra tutto e niente. Il governo ha annunciato l’intenzione di dialogare con i manifestanti, cercando gli originali e diffidando delle imitazioni. Ma chi sono? Quali interessi rappresentano? E’ possibile risalire ai gruppi sociali tra i quali hanno trovato terreno fertile leader e leaderini che vogliono “paralizzare il paese finché non si dimettano il governo e il parlamento”, preparano “le forche per i funzionari di Equitalia”, intendono bruciare  “le banche ebraiche” e inneggiano a Viktor Orban o ad Alba Dorata?

I forconi provengono in origine da un mondo agricolo che, nonostante le paginate bucoliche sui giornali e l’ideologia del chilometro zero, è in ritirata: gli addetti si riducono, ristagna la produttività, è tagliato fuori dal commercio mondiale, come mostra l’ultimo rapporto del Censis. Un mondo che è stato ed è rimasto assistito, fino a che la crisi non ha bloccato il canale che lo alimentava attraverso la spesa pubblica. I camionisti, che compongono l’altra ala militante, soffrono non solo per la riduzione del traffico merci a causa della recessione, ma per la concorrenza dal resto d’Europa: olandesi, rumeni, polacchi che lavorano con mezzi migliori, salari più bassi o in modo più efficiente. Chiedono aiuti di stato, anche loro. Autotrasportatori e coltivatori diretti vorrebbero entrambi chiudere le frontiere. Non solo con il Terzo Mondo, ma con l’Unione europea. Il no all’euro nasconde il ritorno al protezionismo nazionale e soprattutto all’assistenzialismo statale.

Per capire le ragioni vere del disagio, è utile leggere i conti dell’Inps. Operazione noiosa, ma non più di tanto perché oggi come oggi le cose sono spiegate in modo abbastanza chiaro. I coltivatori diretti iscritti, quindi che versano contributi, hanno continuato ad assottigliarsi anche nel 2012, un trend destinato a non interrompersi. Ma quel che colpisce ancora di più è la forbice tra contributi e prestazioni tra le varie categorie lavorative. I contadini pagano molto meno di quello che ricevono. Subito dopo vengono gli artigiani e gli altri lavoratori autonomi. I dipendenti, invece, nel dare e nell’avere sono sostanzialmente in pareggio. Tanto per avere un’ idea, i coltivatori diretti versano all’ Inps in media 2 mila euro all’anno, gli artigiani e i commercianti circa 4 mila, mentre i lavoratori dipendenti e le loro aziende 9.854 euro a testa. Se si guarda all’ importo medio delle pensioni corrisposte, le differenze sono molto inferiori. 

Non è una storia nuova, anzi è una eredità che pesa, l’eredità del patto sociale democristiano, stipulato alla fine degli anni ’40. Non c’è verso che la forbice venga chiusa in tempi di recessione. Anzi, oggi abbiamo il cumularsi di molte crisi: quella produttiva; quella strutturale che richiede di rivedere a fondo l’agricoltura e i servizi (cosa accadrebbe se le merci viaggiassero di più sui treni come sarebbe razionale?); quella fiscale dello stato. 

Se prendiamo un altro bilancio, quello dell’amministrazione pubblica, e lo leggiamo dal lato delle entrate, vediamo che i contribuenti italiani sono per il 49% lavoratori dipendenti, per il 34% pensionati e per il 5% soltanto titolari di un reddito da lavoro autonomo o da impresa. A fronte di 20 milioni di lavoratori dipendenti, ci sono due milioni di autonomi secondo quel che risulta al fisco, eppure l’Istat ne stima 5 milioni e 700 mila. Ciò vuol dire che oltre tre milioni tra commercianti, artigiani, agricoltori, imprenditori, sono evasori totali o troppo poveri per apparire negli elenchi tributari? Piano, meglio non trarre conclusioni affrettate. Non tutti sono evasori, ma tutti sono assistiti e chi paga, lo fa anche per loro. 

Altro che forconi, falce e martello: i simboli dell’antica classe operaia dovrebbero egemonizzare la piazza. Invece, ciò non accade, a parte qualche rituale manifestazione dei sindacati. Perché? Aspettiamo una risposta dai tanti sociologi in parte improvvisati. Probabilmente la ragione è più politica e bisogna sfuggire ancora una volta a quello che i classici chiamavano “economicismo”. Ma la fotografia del paese che arriva dalla lettura mediatica del cosiddetto movimento 9 dicembre non torna.

L’impoverimento c’è, sia chiaro. Però non è uguale per tutti. E i più poveri non sono quelli che rumoreggiano. L’ultima indagine pubblicata venerdì 13 dicembre dalla Banca d’Italia mostra che dal 2007 ad oggi, la ricchezza delle famiglie si è ridotta del 9 per cento a fine 2012, ma bisogna aggiungere un altro punto percentuale nel primo semestre, secondo le prime stime. Dunque, dieci punti in meno negli ultimi sei anni, un salasso, dovuto per circa 6 punti al calo dei prezzi delle abitazioni, il resto è colpa degli impieghi finanziari dei risparmi. Nonostante ciò, l’Italia ha ancora una ricchezza pari a 7.9 volte il reddito (8.542 miliardi di euro) più o meno in linea con Francia, Inghilterra e Giappone, superiore a Germania, Stati Uniti e Canada.

Insomma, gli italiani in media sono ricchi, ma non lo resteranno per sempre; in questi anni di vacche magre hanno cominciato a mangiarsi il fieno messo in cascina negli anni di vacche grasse, perché il reddito disponibile è sceso a partire dal 2008. Fatto cento il livello del 2000, era arrivato a quota 131 prima della crisi, mentre il potere d’acquisto era salito di dieci punti (il che contraddice tra l’altro l’opinione diffusa che sia stata l’introduzione dell’euro a far crollare i bilanci delle famiglie italiane). Dal 2008, il potere d’acquisto è tornato ai livelli del 2000, mentre il reddito è sotto 130, pur con qualche saliscendi.

(Foto Flickr,  Mirko Isaia)

La ricchezza si concentra (anche questo non è nuovo) nelle fasce più alte, tra imprenditori, redditieri e lavoratori autonomi, esattamente le categorie che, stando ai dati del ministero dell’economia, contribuiscono meno alle entrate fiscali, molto meno di operai e impiegati. Non si può dedurre che ci sia un rapporto direttamente proporzionale tra ricchezza privata ed evasione, certo c’è con il debito pubblico. 

Il paradosso del forconi e del martello, insomma, si ripropone anche se lo prendiamo dal lato dei patrimoni, oltre a quello dei contributi e delle tasse. E ciò rende più difficile, ai limiti dell’impossibile, proporre una patrimoniale secca con la quale abbattere lo stock di debito. I margini sulla carta ci sarebbero: per dimezzarlo e tornare entro i parametri di Maastricht basterebbe impiegare un 12,5% della ricchezza accumulata. Ma bisogna rintracciarla, farla venire allo scoperto, prima che venga celata o spostata all’estero. In concreto, tutto lo sforzo cadrebbe sempre sui soliti pagatori, i lavoratori dipendenti.

Gli autonomi scontenti, più che sans coulottes sembrano dei sans papiers fiscali (fuori le cartelle dei redditi, si vous plait). Naturalmente, il disagio esiste, quindi a loro s’aggiunge gente che sta davvero male, quei ceti sradicati dei quali parla Giuseppe De Rita, una categoria difficile da rinchiudere in contorni netti, o in caselle quantitative, perché la maggior parte sperimenta una caduta relativa, un crollo delle aspettative, la mancanza di futuro, tutte cose dette e ridette a iosa.

Il fenomeno nuovo, però, non è tanto questo, che ritroviamo in ogni grave crisi; no, la novità è la confusa rivolta innescata dalla fine del patto assistenziale e dalla libera concorrenza, una rivolta, anch’essa, contro il “calculemus” che porta inevitabilmente a fare i conti del dare e dell’avere. I forconi sono una delle reazioni, la più eclatante, la più manifesta, del collasso dell’assistenzialismo, dopo la fine del protezionismo nazionale. Dunque, non verrà risolta né dalla ripresa quando ci sarà, né da qualche mancia. Tanto meno dall’uscita dall’euro, che abbatterebbe il valore di risparmi, redditi e patrimoni (l’aumento di competitività e quindi dell’export avrebbe effetto dopo uno o due anni e riguarderebbe in ogni caso un quinto del prodotto lordo). 

Che fare? Se ci fosse Margaret Thatcher, tanto spesso invocata, andrebbe avanti per la propria strada tagliando spesa pubblica e assistenza sociale, aprendo alle merci e ai capitali che provengono dall’Africa e dall’Asia, costringendo l’economia a ristrutturarsi e ad adattarsi, anche a costo anni di tensioni sociali durissime. La Lady di ferro non c’è, i tempi sono diversi, l’Italia non è l’Inghilterra. Dunque, bisogna mettere in campo un nuovo patto sociale. Ciò riguarda anche i lavoratori dipendenti i quali non sono in grado di pagare per tutti, tanto più che fra poco saranno meno dei pensionati. Vasto programma, per un vasto governo e per un vasto periodo. Niente di tutto questo, allo stato attuale, è all’orizzonte.

(Fonte Bilancio Sociale 2012 INPS)

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