«Coloro che la toccano si bruciano». Questa frase emblematica e profetica fu pronunciata nel Marzo del 2011 dal giornalista Ahmet Sik mentre si apprestava ad entrare, col capo chino, nella prigione di Silivri, accusato di aver scritto (per conto dell’organizzazione terrorista ed ultra-nazionalista Ergenekon) İmamın Ordusu, L’esercito dell’Imam, un libro che ricostruiva dettagliatamente la maniera in cui i seguaci di una setta islamica, ufficialmente moderata, avevano infiltrato progressivamente polizia, servizi segreti, uomini politici e quadri della forze armate turche. Il leader spirituale di questa sorta di Opus Dei turca, Fethullah Gülen, s’era auto-esiliato in America nel 1999 per evitare d’incorrere in un processo per aver attentato alla laicità dello stato e per aver fomentato l’instaurazione in Turchia di una teocrazia islamica.
In quella frase Ahmet si riferiva alla Cemaat, la Comunità Gülen. Una comunità religiosa che può contare su milioni di seguaci in tutto il mondo, scuole in 140 paesi, una banca, un impero mediatico, ospedali, una compagnia d’assicurazione e un’università, l’Università Fatih d’İstanbul oltre che Zaman, il più diffuso quotidiano di Turchia (con una tiratura media giornaliera di quasi 1 milione di copie). È stato anche grazie alla potenza di fuoco di questa comunità, divenuta nel corso degli anni una sorta di “setta transnazionale”, che Erdoğan è riuscito a costruire le basi del suo successo politico e a rimanere in sella questi anni sfuggendo a diversi tentativi di rovesciamenti manu militari più o meno soft.
Da diversi anni però tra l’Akp e la Comunità Gülen è in atto una guerra sotterranea che ora tanto sotterranea non è visto che è uscita alla luce del sole raggiungendo nelle ultime settimane il parossismo. L’arresto di 52 personaggi della nomenclatura per un affare di tangenti e corruzione ha provocato infatti la reazione veemente dell’establishment del premier che ha defenestrato per tutta risposta 500 dirigenti e funzionari di polizia di cui 400 solo ad Istanbul. Dall’inizio dell’inchiesta, che punta al cuore dell’establishment dell’Akp, il premier ha risposto con una serie di misure politiche e amministrative con lo scopo di affossare uno scandalo che resta, nonstante tutto, di dimensioni bibliche. Al vaglio della magistratura almeno 28 appalti legati a transazioni fraudolente, concessioni e tangenti nelle quali sarebbero implicati anche alcuni membri della famiglia del premier, uno scandalo quantificato in 100 miliardi di dollari.
Si tratta di trasferimenti di terreni di un valore di diversi miliardi di dollari a prezzi stracciati, tangenti a vantaggio di diversi uomini d’affari turchi in cambio d’informazioni preziose che rendevano possibile l’acquisto facile di terreni e l’edificazione selvaggia d’immobili. Un esempio? Il sito di un’accademia di polizia del valore di circa 1 miliardo di dollari venduta ad un’impresa per soli 460 milioni senza alcun appalto pubblico (con una perdita per lo stato turco di circa 600 milioni di dollari. Oppure una licenza di sfruttamento di una miniera in un’oasi verde protetta, quella di Sultanbeyli Pasaköy. Come controparte della licenza di sfruttamento, di un valore di 10 miliardi di dollari, uno dei sospetti per incanto era anche partner al 50% della società che aveva vinto miracolosamente l’appalto su di un terreno protetto.
Altro esempio, il quartiere Pendik Üçagaç ad Istanbul, venduto dalla società Kadiköy. Prima ancora che il terreno potesse essere l’oggetto di una gara d’appalto, società fittizie erano già state create ed autorizzate a concorrere. Nessun dubbio insomma su chi dovesse vincere la gara.
Altre tangenti sono state versate per acquisire terreni pubblici e privati, realizzando in un decennio circa l’incubo che il regista turco Imre Azem ha mirabilmente filmato nel suo documentario Ekumenopolis: ovvero la Città senza limiti.
Al centro dello scandalo c’è l’istituzione pubblica che amministra lo ’sviluppo’ degli alloggi, altrimenti nota come Toki. Armata di nuovi poteri quest’ agenzia, in collaborazione con i comuni e diversi investitori privati, ha completamente rimodellato il paesaggio urbano della città d’Istanbul. Grazie al contributo di capitali nazionali ed internazionali e ad un sistema di tangenti, gli amministratori della città hanno cominciato a demolire interi quartieri storici dell’antica Costantinopoli per costruire grattacieli, autostrade, centri commerciali con il risultato che una parte del della popolazione più povera è stato ’deportata’ verso la periferia, spesso molto lontano dal centro della città. Insomma un danno incalcolabile per lo stato, per il patrimonio artistico, urbanistico e storico della città ma anche per la gente che abitava in questi quartieri (uno su tutti, Sulukule).
Ma non c’è stata solo edificazione selvaggia. Un’altro filone dell’inchiesta riguarda infatti una vasta rete di corruzione legata al riciclaggio di denaro sporco proveniente dall’Iran e transitato attraverso la Halkbank. La Halkbank è divenuta in questi ultimi anni la banca che fa da intermediaria negli scambi tra la Turchia e l’Iran. A causa dell’embargo a danno dell’Iran, ora allentato, il governo turco ha incaricato la Halkbank di provvedere ai pagamenti delle sue importazioni energetiche dall’Iran. Il canale televisivo privato turco Kanal D aveva già trasmesso un video effettuato con una telecamera nascosta in cui si vedeva un uomo politico turco ricevere una tangente di 1,5 milioni di dollari dall’uomo d’affari azero-iraniano Reza Zarrab. Quest’ultimo a sua volta è implicato in un affare di frode di documenti e passaporti falsi forniti a stranieri in cambio di tangenti a figli di ministri turchi. Risultato? Dopo un’inchiesta preliminare il domicilio del direttore della Halkbank è stato perquisito. Gli inquirenti hanno trovato 4,5 milioni di dollari in contanti nascosti nelle scatole delle scarpe.
Le dimensioni dello scandalo sono enormi. E non sono certo bastate la dimissioni di tre ministri il giorno di Natale (il ministro degli interni Muammer Güler, il ministro dell’economia Zafer Çağlayan ed il ministro dell’ambiente Erdoğan Bayraktar ndr), dato che la guerra fratricida Akp-Gülen continua e senza esclusione di colpi. La stessa designazione del successore del dicastero degli interni, Efkan Ala, appare come un’ulteriore tappa della guerra in corso. Stretto collaboratore di Erdoğan, Efkan Ala appare come il “colonnello” incaricato di bloccare l’offensiva nemica ovvero le inchieste a tappeto contro il governo dell’Akp “pilotate”, secondo il partito al governo, dalla Comunità Gülen.
Efkan Ala non deve soltanto bloccare l’offensiva dei Gülenisti ma anche sferrare un contrattacco ai danni degli organi della polizia, notoriamente nelle mani della Cemaat. I risultati si sono visti subito. Quando il procuratore Muammer Akkaş ha cercato di aprire una nuova inchiesta chiedendo l’arresto di una trentina di persone (tra le quali figura anche il figlio del primo ministro), per tutta risposta le autorità di polizia non solo si sono rifiutate di eseguire gli ordini di arresto ma è addirittura sceso in campo il procuratore capo di Istanbul che ha tolto a Muammer Akkaş l’inchiesta.
Ma il simbolo dell’enorme pressione che il potere politico sta mettendo sulla magistratura è il gesto del procuratore Zekeriya Öz, già messosi in luce nell’ambito dell’inchiesta Ergenekon. Il procuratore ha voluto mettere sotto protezione diverse registrazioni di conversazioni telefoniche di figli di ministri implicati nello scandalo. Non solo, ne ha spedito copie anche al Dipartimento di polizia d’Istanbul. Non gli si può dare torto. In un clima d’insabbiamenti e di bavagli alla magistratura i questo tipo, le registrazioni potrebbero ’miracolosamente’ sparire.