Il 164° Meeting dell’Opec si è chiuso a inizio dicembre con un accordo sul mantenimento del livello attuale di produzione di petrolio pari a 30 milioni di barili al giorno, e con un impegno a reagire ad eventi in grado di compromettere la stabilità del mercato.
Il compito di stabilizzare il mercato storicamente è stato assolto dall’Arabia Saudita, maggiore produttore e leader incontrastato dell’Opec, che, facendo ricorso alla sua capacità produttiva in eccesso, ha aumentato l’offerta per assorbire gli shock verificatisi dopo le invasioni Usa dell’Iraq, la crisi del 9/11 e il recente crollo della produzione libica. Le analisi di breve termine prevedono uno scenario simile al precedente, con possibili shock dal lato dell’offerta che potrebbero venire dalle aree più instabili dell’Opec come Libia, Iraq, Nigeria, Egitto e Siria, da riassorbire tramite l’intervento saudita.
Nel medio termine, potremmo però trovarci di fronte a uno scenario opposto in cui l’incertezza economica globale che sta frenando la crescita della domanda (in particolare in Europa) e la nuova offerta dei produttori non-Opec (gli Usa, se, come sembra, sarà eliminato il divieto di esportare) potrebbero richiedere una riduzione dell’offerta dell’Opec, contromisura utilizzata con successo nel passato ma che in futuro, come vedremo, sarà sempre più difficile da mettere in pratica.
Secondo fonti autorevoli, la capacità di fare fronte in modo unitario a salvaguardare la stabilità del mercato del petrolio, è proprio ciò che l’Opec farà sempre più fatica ad assicurare nel lungo termine. A minacciare l’equilibrio del mercato internazionale del petrolio e il ruolo dell’Organizzazione è il ritorno sulla scena dell’Iran, storico rivale dei sauditi, insieme alla nuova offerta proveniente dai paesi non-Opec come Usa, Canada, Kazakhstan e Brasile. Tanto che dentro l’Opec potrebbe giocarsi un nuovo round dello scontro tra Iran e Arabia Saudita, per la supremazia economica, ma soprattutto politica nel Medio Oriente.
Forte del recente accordo provvisorio di Ginevra, il ministro dell’Energia iraniano Zanganeh non ha esitato a dichiarare che il proprio Paese intende aumentare al più presto la capacità produttiva e la quantità offerta sul mercato per un ammontare che potrebbe essere compreso tra 1 e 2 milioni di barili giorno, noncurante di un’offerta da Paesi non-Opec prevista in forte crescita, e ha incontrato alcune major petrolifere occidentali, offrendo loro schemi contrattuali incentivanti per avviare i nuovi progetti funzionali a questo disegno. Egli ha anche tenuto a sottolineare che, in mancanza di una redistribuzione della produzione tra i paesi Opec, e in particolare di una riduzione dell’offerta dell’Arabia Saudita, storico nemico di Teheran, l’Iran aumenterà la propria offerta, a costo di innescare una riduzione di prezzo. L’Iraq, oggi alleato iraniano, e la Libia, la cui produzione oggi è quasi ferma per l’instabilità politica,si sono allineate sulle stesse posizioni.
Da questi Paesi, finora minoritari nell’Opec, potrebbero teoricamente arrivare sul mercato tra i 3 e i 6 milioni addizionali di barili al giorno (tra 10 e 20% dell’attuale offerta totale Opec), ma certamente non prima del 2015. E ovviamente solo al verificarsi delle seguenti condizioni: il raggiungimento di un accordo definitivo sul nucleare in grado di sbloccare l’export petrolifero iraniano; l’effettivo incremento della produzione di questi Paesi in così breve tempo; un ritorno alla stabilità politica, soprattutto di Libia e Iraq. I sauditi dal canto loro mettono in forte dubbio che Iran e Iraq siano in grado di aumentare la capacità produttiva in misura così ampia così velocemente, e potrebbero, in un simile scenario, essere tentati di innalzare il livello di destabilizzazione, specie in Siria e Iraq, per creare shock diffusi dell’offerta di petrolio.
Le affermazioni del Ministro iraniano non stupiscono per la pressante necessità di questi Paesi di aumentare il reddito con la crescita dell’export petrolifero, dopo la difficile congiuntura che hanno affrontato recentemente. L’aspetto più interessante degli obiettivi di espansione petrolifera dichiarati da Teheran sembra risiedere però nelle implicazioni di natura geopolitica. Le dichiarazioni fanno presumere che l’Iran abbia ben presente che l’indebolimento della leadership dell’Arabia Saudita nell’Opec può rappresentare un tassello decisivo per ridimensionare l’influenza araba nel Medio Oriente, andando a intaccare il rapporto decennale con gli Usa.
Nel 1945 Franklin Delano Roosevelt e Al Saud si incontrarono sull’incrociatore Quincy, e da allora, salvo crisi transitorie, l’Arabia beneficia di una partnership consolidata con gli Usa, fondata sul riconoscimento ai sauditi di un’influenza politica dominante nell’area con il supporto della potenza militare e diplomatica Usa, in cambio delle forniture petrolifere necessarie per il mercato americano e del mantenimento della stabilità del mercato del petrolio grazie a una consistente, e molto costosa da mantenere, capacità produttiva in eccesso (circa 3,0 milioni barili/giorno, pari al 10% dell’intera produzione Opec), insieme alla disponibilità a ridurre la produzione in fasi di eccesso di offerta.
Il prezzo pagato dal Medio Oriente per l’influenza araba è stata una costante instabilità geopolitica, dopo la caduta dell’Impero Ottomano e la parentesi delle dominazioni anglo-francesi, e il mancato raggiungimento di sviluppo e sostenibilità socio-economica che, oggi, sembrano però sempre meno tollerabili, soprattutto a fronte dell’esplosione di crisi molto acute nelle zone più instabili. Gli ultimi eventi, in primis il disgelo con l’Iran e il nuovo approccio alla crisi siriana, sembrano far pensare che gli Usa siano ormai intenzionati, o quantomeno forzati, a perseguire un nuovo equilibrio nell’area, che potrebbe non contemplare più un rapporto preferenziale con l’Arabia Saudita, fondato su una base multilaterale e su logiche differenti rispetto al passato, ma, soprattutto, più coerente con le loro esigenze e dotazione di risorse. l’Iran dal canto suo sembra voler sfruttare questa situazione senza esitazione e colpire come primo bersaglio proprio la leadership del suo nemico all’interno dell’Opec, il baricentro della partnership con gli Usa.
L’influenza araba nel mercato del petrolio del resto appare sempre più difficile da mantenere, inizialmente per una serie di fattori di per sé indipendenti dall’azione dell’Iran. L’instabilità sociale e politica interna e la crescita demografica nel Paese stanno infatti spingendo la famiglia reale a indirizzare una quota maggiore di idrocarburi verso il consumo domestico a scapito dell’export, e a destinare maggiori investimenti pubblici a infrastrutture e welfare sottraendoli al mantenimento della costosa capacità produttiva in eccesso di idrocarburi. Questi fattori hanno iniziato a mettere a rischio l’influenza saudita nel mercato petrolifero e spiegano in larga misura anche la minore tolleranza dei Paesi arabi del Golfo a riduzioni del prezzo del petrolio e il ritorno delle loro ambizioni nucleari, spesso non concordate con gli Usa.
L’aumento della capacità produttiva e l’offerta addizionale di petrolio che Iran e Iraq intendono, non senza difficoltà, mettere in piedi, potrebbe ulteriormente e forse definitivamente scalfire l’influenza dominante dell’Arabia Saudita nel mercato internazionale del petrolio, facendole perdere una volta per tutte la facoltà esclusiva (e il potere negoziale nei confronti degli Usa che ne scaturisce) di stabilizzare il prezzo del petrolio a seguito di shock, derivante da una capacità produttiva in eccesso superiore all’offerta di ogni altro membro Opec.
Venendo meno tale ruolo di stabilizzatore del mercato, probabilmente s’indebolirebbe a sua volta l’interesse degli Usa a tenere in piedi la partnership strategica preferenziale con i sauditi e la loro influenza nel Medio Oriente, i cui costi negli ultimi tempi si sono dimostrati troppo elevati (es. guerre in Afghanistan e Iraq) e i cui benefici sono sempre meno evidenti per il raggiungimento, molto prossimo, dell’indipendenza energetica americana.
L’Arabia Saudita è in una condizione, sia interna sia esterna, non facile, stretta tra l’avvio della distensione, seppur ancora precaria, degli Usa nei confronti di Teheran e la spaccatura del fronte sunnita dopo la repressione dei Fratelli Musulmani in Egitto, inevitabile per impedire l’espansione della loro azione sul territorio arabo che avrebbe avuto impatti potenzialmente devastanti per l’equilibrio interno. Sfruttando lo scenario descritto, il protagonismo dell’Iran all’interno dell’Opec punta a scalfire l’influenza geopolitica saudita nel Medio Oriente e a mettere in discussione l’equilibrio, divenuto ormai obsoleto, del triangolo Usa-Israele-Arabia Saudita, con l’obiettivo finale di una transizione verso un nuovo assetto complessivo dell’area più favorevole. Gli esiti sono incerti e dipenderanno anche dalla reazione araba, che potrebbe essere indirizzata a innalzare il livello di instabilità nelle zone critiche, per conservare il proprio ruolo nel mercato del petrolio. In gioco ci sono, oltre alla futura struttura del mercato mondiale del petrolio e al ruolo dell’Opec, anche, e soprattutto, l’evoluzione dello scenario strategico dell’intero Medio Oriente e la risoluzione delle sue crisi politiche ancora aperte.