Se c’è una cosa che deve far riflettere su questo presunto Movimento dei Forconi, è che nessuno sa davvero che cosa ci sia dentro (o dietro). All’interno di questa ondata di protesta – infatti – ci sono gli autotrasportatori, ma non tutti; ci sono movimenti di estrema destra e di estrema sinistra, ci sono agricoltori arrabbiati di diversa natura, ci sono leader di facciata e sotterranei, ci sono giovani e vecchi, c’è qualcuno che a Torino gioca alla guerriglia in piazza, c’è chi mobilita e chi emula, c’è chi prova a fare i blocchi ai caselli (come accadde nella passata protesta) e chi si dedica alla guerriglia urbana. Rispetto allo scorso anno, quando la protesta era partita dalla Sicilia, adesso uno degli epicentri è Torino, e sembra che in comune ci sia solo il nome. Un solo nome suggestivo e accattivante, quello dei “forconi”, dietro cui oggi si raccolgono e si uniscono diverse declinazioni di rabbia, in cui si mischiano rivendicazioni di tipo sindacale e malcontento sociale. Ci sono quelli dei centri sociali e quelli di Casapound, i “mercatali” che fanno i blocchi nel centro della capitale sabauda, e gli studenti che si associano senza capire bene che cosa fanno: è un movimento a scomparti isolati in cui ognuno aggiunge il suo pezzo di rivolta senza conoscere cosa ci sia al suo fianco: questo rende tutto molto pericoloso.
«Non so chi sono e non so chi li stia finanziando, so che nei loro volantini si inneggia alla mafia», racconta Cinzia Franchini, presidente della Fita, uno dei sindacati autotrasportatori che non hanno aderito alla protesta. Che, senza essere smentita, aggiunge: «Quando vedo persone molto organizzate in tutta italia che si spostano da nord a sud con tanta agilità e disinvoltura, mi pare evidente che dietro ci siano soldi e una regia politica. Non spetta a noi – conclude la Franchini – capire di chi si tratti, ma sta alle forze dell’ordine e alle istituzioni verificare». Giusto. Di fronte a queste parole non si può non farsi delle domande: come si fa – invece – a togliersi il casco, anche simbolicamente, di fronte a dei movimenti di così dubbia natura? E come fa il Siulp ad esaltare questo presunto gesto di distensione?
Mi domando che Paese stia diventando l’Italia se basta agitare una bandiera perché subito dopo qualcuno ci si metta a sfilare dietro. La promessa del blocco totale delle forniture, accompagnata da improbabili proclami alla “rivoluzione”, e dal tentativo di mettere insieme tutte le possibili proteste, non dovrebbero suscitare simpatie ma allarme. Ma in generale l’Italia sembra un paese in cui la crisi della politica ha lasciato alle sue spalle un cumulo di macerie e ha prodotto la fine di molti corpi intermedi che svolgevano una preziosa funzione di filtro. Avere meno politica, meno partiti, meno sindacati, non sempre è positivo: produce nella società un effetto desertificazione simile a quello del disboschimento sul territorio. I forconi di oggi ricordano – speriamo alla lontana, e senza vittime – il cortocircuito che a Reggio Calabria nel 1970, produsse una rivolta contro lo Stato.
L’Italia sta diventando un luogo dove basta un segnale di rivolta generico e demagogico per far attecchire il contagio della rabbia, all’insegna dell’improbabile slogan: «Non so per cosa si protesta ma sono d’accordo». Purtroppo, nel giorno in cui nasce la nuova segreteria del Pd – spero di ricredermi – non riesco ad immaginare nessuno di quei simpatici ragazzi a presidiare il territorio con un megafono in mano, a mediare tra arrabbiati e forze dell’ordine nel fango di qualche periferia o tra i fuochi in un casello di qualche autostrada. È per questo che i forconi devono farci riflettere su quello che raccontano, molto più delle loro ciance su qualche improbabile rivoluzione: non sono simpatici – infatti – perché malgrado tutto si sono scelti un nome carino. Sono pericolosi perché sono diventati la faccia di un antagonismo destrutturato che nel tempo della crisi può produrre solo catastrofi.