Passare per il Mediterraneo e tornare più forti a Bruxelles. In linee generali, il quadro della situazione è chiaro. L’Europa ha un centro a guida (economica e politica) tedesca, mentre per i Paesi del Sud viene a profilarsi un ruolo sempre più periferico. Un destino che finisce per coinvolgere anche l’Italia, che pure è uno dei Paesi fondatori della Comunità europea. Ma in un’Europa senza Mediterraneo, proprio affacciarsi sul mare può diventare una risorsa Perché oltre le nostre coste non partono sono le navi di chi viene nel nostro Paese per cercare una vita migliore, ci sono anche economie in via di sviluppo «che hanno voglia di imparare dal nostro sistema di piccole e medie imprese» spiegano da Confindustria Assafrica & Mediterraneo. È la possibilità (forse l’ultima) che ha l’Italia per contare di più?
Come ipotesi non è nuova: già Romano Prodi, quando era presidente del Consiglio nel 2007, aveva caldeggiato una nuova politica per i Paesi nordafricani, in cui l’Italia doveva funzionare come hub. «Con la cortina di ferro eravamo doverosamente concentrati sull’allargamento a Est. Adesso è il tempo di una forte politica mediterranea e africana». Concetto che, nel febbraio 2012 viene ripreso in modo ancora più chiaro in un suo articolo sul Messaggero: «Una politica alta nel Mediterraneo contribuirà a difendere le nostre buone ragioni anche a livello europeo». Pensiero lineare, seguito in realtà con molte difficoltà dalla classe politica. Ma resta un punto: quali sono le nostre “buone ragioni”? Politiche, senza dubbio, ma anche economiche. Ed è nell’intreccio delle due cose che deve (o dovrebbe) dispiegarsi l’azione dell’Italia.
L’Europa intrattiene profondi scambi commerciali ed economici con i Paesi del Nordafrica e del resto del Mediterraneo. L’interscambio totale (import + export) di merci tra il 2001 e il 2012 è in crescita, con una flessione solo nel 2009. Quello dell’Italia con i Paesi dell’area del Mediterraneo – al 60% con Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto – è passato da 37,2 miliardi di euro nel 2001 a 67,5 miliardi nel 2012 (+81,3%). «È un partner commerciale molto importante. Al primo posto in assoluto nell’area, tuttavia con una bilancia commerciale in passivo per oltre 13 miliardi. A causa delle forti importazioni di prodotti energetici dalla Libia e dall’Algeria, che da soli pesano per il 70%», spiega Luca Forte, responsabile del centro studi e ricerche sul Mezzogiorno (Srm) di Intesa San Paolo. Questo spiega anche perché, oltre al crollo negli scambi commerciali del 2009, per l’Italia c’è stata una crisi anche nel 2011 (una cifra intorno a 6,6 miliardi di euro persi) proprio a causa della guerra in Libia, che ha bloccato le importazioni italiane di petrolio.
Certo, la componente energetica ha un peso rilevante per tutti i Paesi europei, ma per l’Italia è più forte. L’incidenza degli scambi di prodotti energetici per il nostro Paese è del 46,5 per cento. Al netto dei prodotti energetici, l’interscambio italiano nel Mediterraneo «si riduce a circa 13,5 miliardi di euro», spiegano da Srm, ed è «un valore inferiore a quello espresso da Francia e Cina che, se si guarda ai soli prodotti manifatturieri, sono ai primi due posti in assoluto».
Il peso del mercato degli idrocarburi si sente in particolare sul Mezzogiorno: secondo i dati è proprio il Sud dell’Italia a rappresentare un avamposto commerciale fondamentale nel Mediterraneo. Nel 2012, dopo la contrazione dell’anno prima, è riuscito a toccare quota 17,6 miliardi di euro di interscambio. Ma se si escludono i prodotti energetici, il risultato scende di molto, tanto da diventare inferiore rispetto alle altre aree del Paese. «Il Mezzogiorno si candida a svolgere un ruolo centrale nel Mediterraneo», si legge nel Rapporto Svimez 2013, «in particolare come territorio snodo dal punto di vista logistico tra traffici marittimi asiatici, nord-africani ed europei (dal nord Africa al Medio Oriente e, oltreSuez, fino ai Paesi del Golfo e quindi l’Asia). Con riferimento al traffico e alle linee di trasporto marittimo del Mediterraneo, i porti meridionali si trovano, infatti, all’incrocio dei due corridoi longitudinali in direzione nord-sud Adriatico e Tirrenico con il corridoio trasversale Mediterraneo Sud che va da Suez all’Atlantico».
Il Nord Ovest, dall’altro lato, con 15,8 miliardi di euro, è la macro-regione che realizza i maggior interscambio commerciale non energetico con l’area mediterranea. Tra le regioni meridionali in testa c’è la Sicilia, seguita dalla Sardegna. Il punto di partenza, insomma, è buono. L’Italia è già a capo degli scambi commerciali.
Visti nel dettaglio, i Paesi presentano differenze notevoli. Alcune ovvie: «Dei cinque Paesi del Nord-Africa, solo tre (Marocco, Tunisia ed Egitto) possono definirsi come “Paesi ad economia diversificata”. Algeria e Libia, invece, hanno un sistema economico che dipende totalmente dalla vendita di idrocarburi». L’Italia non può che adattarsi a queste condizioni di partenza.
Analizzando con la lente di ingrandimento Paese per Paese, il quadro è chiaro. Dall’Algeria deriva la fornitura di gas naturale, petrolio greggio e in cambio vengono venduti prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio. L’Italia garantisce, in gran quantità, prodotti della siderurgia, prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio e macchine industriali. In Libia le importazioni sono di gran lunga maggiori delle esportazioni: sui circa sette miliardi di interscambio commerciale, cinque consistono in importazioni energetiche in Italia. Soprattutto petrolio e gas naturale. La forte presenza di Eni (con sei aree produttive, onshore e offshore), che risale al 1959, è uno dei fattori decisivi del rapporto tra Italia e Libia.
Il quadro dell’Egitto è diverso. Dal Cairo arriva petrolio greggio, prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio e metalli di base, preziosi e non. Dall’Italia partono invece forniture di prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio e macchine industriali. Il quadro politico, spiega Forti, «appare migliore di qualche mese fa, tuttavia, il lungo periodo di aspra contrapposizione tra le diverse forze in campo, hanno determinato una crescita del rischio-Paese; nel medio periodo, con una situazione politica definitivamente pacificata, l’Egitto (un Paese di 85 milioni di abitanti con un tasso di crescita della popolazione tra i più alti al mondo) potrà essere un importante obiettivo per processi di internazionalizzazione da parte delle imprese europee». Gli spazi per un allargamento commerciale ed economico ci sono. L’Italia è uno dei Paesi più avvantaggiati, ma le perplessità restano.
Dal Marocco è escluso il quadro energetico: lo scambio è piuttosto ridotto, in particolare se confrontato a quello di Libia e Algeria. L’Italia importa alimentari (soprattutto pesce, crostacei e molluschi lavorati e conservati) per 74,8 milioni, ma anche articoli di abbigliamento (47 milioni) e autoveicoli (oltre 25 milioni). In questo caso la bilancia commerciale è favorevole: le esportazioni sono di gran lunga maggiori. Dalla Tunisia importiamo invece soprattutto articoli di abbigliamento, petrolio greggio, calzature, oli e grassi vegetali e animali, e apparecchiature di cablaggio. Ed esportiamo soprattutto prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio.
Nel breve periodo sono proprio Marocco e Tunisia «i due Paesi nordafricani possibili target per investimenti dall’estero (e dall’Italia, in particolare). Entrambi i Paesi puntano su una incisiva politica di attrazione di investimenti dall’estero – l’Italia, in particolare, vanta una lunga storia di presenza di imprese in Tunisia, di cui è il secondo partner commerciale e secondo investitore in assoluto, dietro la Francia», spiega Luca Forte.
Per il Marocco, «le “relazioni di affari” sono in crescita». La presenza delle imprese italiane «aumenta e l’Italia è il quinto partner commerciale; se, storicamente, la Tunisia è stata una delle mete all’estero preferite per le imprese italiane (grazie alla vicinanza geografica e al buon rapporto tra costo e qualità della manodopera), l’interesse per il Marocco è in crescita grazie al basso rischio politico e alla stabilità nel tempo delle autorità governative e delle relative politiche a favore delle imprese. Il punto, per le imprese italiane, è proprio l’affidabilità dei Paesi del Nordafrica».
Il principale vantaggio è la possibilità di realizzare grandi profitti in poco tempo, con attività a basso costo e con un mercato in espansione. Al tempo stesso, il problema sta nei rischi dovuti alla instabilità politica di questi Paesi. Secondo una stima della banca Hsbc, la primavera araba è costata alle economie del Medio Oriente ben 800 miliardi di dollari. Come ripete Forte, per gli investitori esteri «le conseguenze degli eventi della primavera araba sull’attività delle imprese sono state diverse in ciascun Paese. In Tunisia l’attività economica non si è mai praticamente interrotta, salvo che in alcune giornate durante i primi mesi successivi agli eventi del dicembre 2010». Mentre In Libia e in Egitto «la situazione è, ancora oggi, complicata per le imprese che vi operano». Non si tratta solo di problemi di ordine pubblico: «La principale preoccupazione riguarda il futuro politico che prevarrà dopo questa lunga fase di transizione, che vede in molti paesi un’aspra disputa tra laici e religiosi».
La cosa fa preferire alle aziende di limitarsi alle forniture anziché aprire capannoni in loco. Trattandosi di Paesi in via di sviluppo, i maggiori bacini di business sono edilizia e infrastrutture. Ma anche l’arredamento e il tessile. Le imprese italiane in Algeria sono quasi 160, in Tunisia sono circa 700 con oltre 55mila addetti, 130 in Marocco (dove esistono anche gli uffici di rappresentanza di due banche, Intesa San Paolo e Monte dei Paschi di Siena), in Egitto i numeri sono fermi a 26 (con la forte presenza di Italcementi), in Libia sono poco meno di 120.
Tra le aziende italiane presenti nei Paesi del Nord Africa, c’è la Fagioli srl, storica azienda italiana (nata nel 1955) nel trasporto di beni di ogni tipo. L’azienda ha le sue sedi in Algeria, Tunisia e Libia. «Si tratta di Paesi storici per i nostri clienti e di conseguenza per noi e per i nostri servizi», spiega Rudy Corbetta, responsabile marketing dell’azienda. Anche loro confermano: dopo le primavere arabe «la domanda per i nostri servizi è temporaneamente diminuita o sospesa. Siamo in attesa di maggiore stabilità sui mercati locali».
D’altro canto, però, se l’Italia ha già molti legami con il mondo Mediterraneo, resta ancora tanto da fare. Le istituzioni (e questo è una denuncia diffusa) «danno poco o nessun apporto alle nostre attività e iniziative», mentre i concorrenti stranieri sono «sicuramente maggiormente supportati dai loro governi attraverso iniziative che tendono a implementare la loro penetrazione nei relativi mercati», continua Corbetta. Certo, come spiega Forti di Srm «il quadro generale varia di Paese in Paese». Ci sono alcuni casi in cui il sostegno di «Camere di Commercio, Uffici economici delle Ambasciate si sono integrati in modo efficace». Altrove «è stata la libera iniziativa dei singoli addetti e, in altra misura, le capacità individuali dei singoli imprenditori». Che hanno sopperito le inefficienze delle istituzioni.
Ma sono considerazioni che hanno validità. Anche Corbetta insiste: solo «se avessimo un sistema politico che supportasse maggiormente e più efficacemente le iniziative intraprese dalle imprese italiane all’estero l’Italia potrebbe diventare l’hub europeo nel Mediterraneo». Ma la classe politica, al momento, non sembra ascoltare. E però è l’unica strada per difendere, anche in Europa, le «nostre buone ragioni».
Twitter: @lidiabaratta & @darioronzoni1
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