Moneta comune: in Europa si odia, in Africa si vuole

Aree economiche ottimali

Alcuni Paesi dell’Africa Orientale – Kenya, Tanzania, Uganda, Ruanda, e Burundi – sembra che vogliano dar luogo a un’unione monetaria. Evidentemente pensano di trarne vantaggio, rispetto al mantenere ciascuno la propria moneta. E riecco le “aree economiche ottimali” (AEO). Intanto che in Africa cercano di costruirle, nell’euro area c’è chi è diventato molto scettico. Si ha in Italia chi, se proprio non vuole uscire dall’euro, come la Lega e M5S, chiede che ci siano delle politiche fiscali meno stringenti, come FI, e, ultimamente, anche il PD.

Un’area economica è “ottimale” se, avendo la stessa moneta: 1) ha un mercato dei prodotti comune; 2) ha un mercato dei capitali comune; 3) ha un mercato del lavoro comune; 4) ha un bilancio fiscale comune. L’euro area soddisfa i requisiti 1) e 2). Non soddisfa, in tutto o in parte, i requisiti 3) e 4).

Prendiamo gli Stati Uniti relativamente al punto 3). Se non c’è lavoro nell’area occidentale, la gente va in quella orientale. Relativamente al punto 4), se l’area occidentale è mal messa, ecco che il bilancio federale, che incassa imposte da entrambe le aree, ma, nell’esempio, ne incassa di più dalla parte orientale, trasferisce i fondi verso l’area occidentale. Attenzione, i bilanci statali statunitensi non possono andare in deficit, se non per spese definite come quelle per infrastrutture, e quindi possono emettere solo dei “project bonds”, e perciò solo quello federale ha questa facoltà. Gli stati non possono andare genericamente in deficit – possono sempre alzare le spese se alzano le imposte -, perché altrimenti sarebbero tentati dal farlo, contando che, alla fine, il loro debito statale sarà salvato da quello federale.

La prima differenza dell’euro area con gli Stati Uniti è che, se il Portogallo va male e l’Olanda va bene, è difficile che i lusitani si trasferiscano in massa – per problemi di lingua e di abitudini – nei Paesi Bassi. La seconda differenza è che i bilanci statali dei Paesi dell’euro-area possono andare in deficit, sebbene entro i vincoli (più o meno disattesi) di Maastricht (il famigerato deficit del 3% del PIL, e l’altrettanto  famigerato tetto del debito del 60% sul PIL). Non esiste, infatti, nell’euro-area un governo centrale che copra – raccogliendo le imposte da tutti e in caso di crisi di più da alcuni – i deficit degli stati membri.

La Germania (con i Paesi detti “virtuosi”) non garantisce il debito degli altri Paesi. E dunque, quando i Paesi si indebitano troppo, senza dar mostra di poter ripagare il debito cumulato, ecco che l’euro- area conta che i mercati finanziari li “puniscano”, ossia che chiedano un “premio per il rischio”. L’euro-area funziona se i mercati finanziari puniscono le “cicale”, premiando chi è “formica”, ma questo non è avvenuto sempre. Per anni la Grecia ha, infatti, pagato sul proprio debito pubblico un rendimento di poco superiore a quello tedesco.

Perciò nella costruzione dell’euro-area si ha un mercato comune dei prodotti, dei capitali, ma si ha un modesto mercato del lavoro omogeneo, e non si ha – forse un giorno, quando tutti gli Stati dell’euro area avranno il bilancio in pareggio con esenzioni definite per l’emissione di obbligazioni come avviene negli Stati Uniti – un sistema di trasferimenti federale di tipo “automatico”. I trasferimenti che si sono avuti negli ultimi tempi con il “Fondo Salva Stati” sono stati, infatti, tutti oggetto di un lungo negoziato. Possiamo perciò immaginare l’euro-area come un’area economica parzialmente ottimale.

Vedremo come potrà diventare la nascitura AEO dell’Africa Orientale. Ma non bisogna correre troppo a cercarne subito i difetti, come se fosse un’area sofisticata come quella statunitense o europea. In prima approssimazione, possiamo affermare che può funzionare se le imprese dei diversi Paesi che la compongono, sapendo che avranno una sola moneta, diventeranno più efficienti. L’aderire ad un’area in cui i cambi sono fissi – posto che ci sia una banca centrale credibile – consente, infatti, di contenere l’inflazione.

La maggiore inflazione di un Paese rispetto agli altri non può, infatti, essere scaricata sul cambio se questo è fisso. (La maggiore inflazione di un Paese alza i prezzi dei suoi beni che diventano meno competitivi in rapporto a quelli esteri, ma la svalutazione ne riduce il prezzo in termini di beni esteri, rendendoli di nuovo competitivi. L’inflazione però non è “combattuta”, ma solo “scaricata”, e quindi, ciclicamente, riprende il percorso inflazione->svalutazione). Riducendo il tasso di inflazione, grazie all’ancoraggio del cambio, si evita di redistribuire il reddito attraverso l’inflazione (sono puniti quelli che hanno un reddito fisso non indicizzato) e si evita anche di avere dei prezzi che, avendo saggi di crescita anche molto diversi nel corso del tempo, impediscono alle imprese di prendere delle decisioni abbastanza certe sul lato dei prezzi.

La concorrenza, non potendo più essere alterata dalle svalutazioni, spingerà le imprese a concentrasi dove sono più competitive. Infine, con una inflazione diventata prevedibile (una variazione dei prezzi con una varianza bassa riduce il “premio per il rischio” che si corre a prestar soldi a un tasso definito che può diventare un giorno negativo se l’inflazione sale) il costo del denaro può scendere, e il tasso di risparmio salire. In un Paese ad alta inflazione e con un sistema finanziario primitivo i risparmi sono investiti in valute forti e nascosti. In Tanzania, quando sono stato lì trenta anni fa, i dollari che riuscivano ad ottenere li mettevano nei sacchi, che poi sotterravano in giardino. I sacchi di dollari sepolti in giardino erano la versione “low-tech” dei denari depositati in Svizzera.

Insomma, con il cambio fisso che “tramortisce” l’inflazione, le imprese si specializzano e si finanziano a tassi inferiori. Questo percorso virtuoso si è avuto in passato nell’euro area, soprattutto nei Paesi proni all’inflazione come l’Italia, ma oggi molti se ne dimenticano. Alcuni poi ne provano nostalgia.

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