Certi anniversari non sono solamente un esercizio di memoria. Sono nodi nel tempo che il presente non ha ancora sciolto. La rievocazione del crac Parmalat, per esempio, in questo dicembre 2013 mischia passato e futuro, cause ed effetti, numeri e rimpianti. Era la vigilia di Natale del 2003 quando a Collecchio, nel parmense, arrivarono le auto della finanza e le televisioni di tutto il mondo, insieme allo sbalordimento e alla rabbia difronte alla truffa. Iniziarono allora due anni di crisi profonda per il gruppo alimentare: prima l’amministrazione straordinaria, poi il ritorno in Borsa nell’ottobre 2005.
Oggi, a dieci anni esatti dal colossale dissesto finanziario del “gioellino” di Calisto Tanzi, la Parmalat è ancora viva. Il crac è una ferita in gran parte rimarginata. La prima considerazione è dunque d’ordine positivo. La storia avrebbe potuto imboccare strade diverse e assai più spaventose. L’allora multinazionale di Collecchio sarebbe potuta fallire, e causare così il licenziamento gli oltre 32mila dipendenti che all’epoca imbottigliavano latte o impastavano dolcetti o miscelavano succhi di frutta nei 132 stabilimenti sparsi in 30 Paesi nel mondo. Al crac da 14 miliardi di euro, un buco che in poche settimane rischiò di inghiottire anche un patrimonio umano e industriale, sarebbe potuta seguire una sciagura sociale con la perdita di migliaia di posti di lavoro (i quali si sarebbero sommati alla perdita dei risparmi investiti da tanta gente sui titoli del gruppo).
18 dicembre 2004: Callisto Tanzi, ex patron di Parmalat, lascia il tribunale di Parma dopo un interrogatorio. Per il crac Parmalat ha ricevuto tre condanne, di cui una definitiva a 8 anni e un mese di reclusione
Nulla di tutto ciò invece accadde. La Parmalat si salvò, la coesione sociale e politica combinata con la tenacia dei dipendenti risollevò l’azienda dal sepolcro a cui le leggi del mercato sembravano averla destinata. Un paradosso felice del capitalismo. Oggi la corolla di gocciole stilizzate continua a far capolino sugli scaffali dei supermercati. Parmalat opera in 29 Paesi con 70 siti produttivi, 10 dei quali sono attivi in Italia. Nel terzo trimestre del 2013 Parmalat ha dichiarato un fatturato netto di 3 miliardi e 872 milioni, in crescita del 4,9% sul 2012, che si aggiunge a un più 4,6% di margine operativo lordo ottenuto grazie soprattutto alle prestazioni registrate sui mercati di America Latina, Sud Africa, Australia (mentre un calo di fatturato si osserva in Europa e in America del nord).
Il numero dei dipendenti è sceso, i lavoratori Parmalat sono oggi circa 16mila in tutto il mondo secondo quanto il piano di riorganizzazione industriale di Enrico Bondi predispose già nel 2004. La cessione di diversi rami d’azienda – dalla linea del forno a quella delle conserve – è la ragione principale d’una simile riduzione. Non lo sono dunque i licenziamenti.
E tuttavia Parmalat non è più la stessa d’un tempo. Ecco perché certi anniversari parlano al presente additando il futuro. L’ex “gioiellino” che Tanzi modellò e ingigantì partendo dal salumificio di suo nonno, l’omonimo Calisto, dal luglio 2011 figura infatti come una divinità minore del Pantheon del capitalismo italiano essendo diventata di proprietà francese, controllata per l’83% dalla Lactalis della dinastia Besnier. Un esito che oggi amareggia alcuni protagonisti del salvataggio post-crac. Enrico Barbuti e Diego Savi, come componenti Cgil della Rsu a Collecchio, denunciano una ingratitudine di fondo o almeno una imperdonabile leggerezza del “sistema Italia” nei riguardi di quanti spesero l’anima nel periodo seguito al dissesto: «Sacrificammo mesi preziosi della nostra vita – commentano – per riconsegnare la Parmalat al Paese, e il Paese s’è lasciato portar via tutto quel patrimonio».
Un pezzo di storia dell’industria italiana venne fagocitato nel 2011 dal mercato internazionale, reso appetibile specialmente dal «tesoretto», come venne ribattezzata la somma di denaro ammonticchiata da Bondi nei cassetti del gruppo emiliano, somma racimolata mediante le azioni risarcitorie avviate verso le banche, quattrini che il manager preferì tener sottochiave anziché reinvestire per lo sviluppo. Antonio Mattioli, nel 2003 segretario Flai-Cgil di Parma, racconta: «Noi chiedevamo che il “tesoretto” venisse utilizzato per rilanciare il gruppo, per tornare a far politica industriale con investimenti anche in pubblicità dopo anni di stallo». Bondi non fu dell’avviso.
Uno stabilimento Parmalat a Brisbane, Australia, sommerso a causa dell’alluvione del gennaio 2013
Guido Angiolini, il collaboratore più stretto del manager “aggiustatutto” toscano, riflette, quindi afferma: «Certo, con il senno di poi si possono fare tante cose. Ma io dico che con la mentalità e l’indirizzo impostati dal dottor Bondi portammo l’azienda fuori dalla crisi…si poteva fare qualcosa di diverso? Personalmente posso anche pensare di sì, forse Parmalat poteva essere una grande public company, ma ripeto, con i “se” non si fa la storia». E del resto, come annota Gianni Alviti, segretario Fai-Cisl di Parma, «la proposta di Lactalis fu l’unica offerta concreta registrata nel 2011. Certo, poi possiamo chiederci come mai sia finita a quel modo, ma questa è la realtà». Una realtà figlia del mancato investimento del «tesoretto», e che nel 2013 induce a qualche preoccupazione i sindacati: «I timori per il futuro di Parmalat in Italia discendono da due ordini di ragioni – spiega Luca Ferrari, attuale segretario provinciale della Flai di Parma – in primo luogo dalle ricadute occupazionali che il piano di riorganizzazione presentato da Lactalis potrebbero avere, e in secondo luogo dall’esigua percentuale del fatturato generato in Italia sul totale del gruppo».
Un anno fa, allo scopo di omologarne gli standard aziendali a quelli di Lactalis, la dirigenza ha infatti inaugurato in Parmalat un nuovo modello organizzativo. Ha deciso di chiudere due stabilimenti in provincia di Pavia e di Como oltre alla Centrale del latte di Genova, e ha avviato una procedura di mobilità per circa 30 operai dello stabilimento di Collecchio, mobilità poi diventata volontaria. «Questo modo di procedere – prosegue Ferrari – di tagliuzzare qua e là la forza produttiva ci fa presagire la volontà di intraprendere la stessa strada anche con gli impiegati». In questi giorni Flai-Cgil, Fai-Cisl e Uila-Uil hanno incontrato l’azienda in un coordinamento convocato al fine di stilare un bilancio sull’anno trascorso e un prospetto su quello che sta per iniziare. «Si è parlato della possibilità di qualche esubero anche se stiamo ancora discutendo e per ora non c’è nulla di deciso» riferisce Alviti. Quanto alla scarsa incidenza del fatturato italiano su quello dell’intero bilancio, Laura Pagliara, segretaria Uila-Uil di Parma, spiega che «l’azienda ha compiuto la scelta di lavorare anche per conto terzi, cioè di produrre latte anche per altre marche: una scelta difficile, proprio perché comporta bassi margini di guadagno nonostante nel medio periodo si possa rivelare utile a garantire volumi che altrimenti, con la crisi attuale dei mercati, rischiano effettivamente di scemare. È comunque indispensabile che sul lungo periodo Parmalat torni a essere Parmalat, cioè ad investire sul marchio, sull’innovazione, sul marketing», insomma sulle sue qualità storiche, quelle che le garantirono il successo sin dai tempi dell’introduzione in Italia del tetrapak e dell’Uht. «In ogni caso – ragiona Alviti – va considerato che all’estero il lavoro per conto terzi conquista quote in misura maggiore che in Italia, dunque guardando al mercato con uno sguardo a più ampio spettro la scelta dell’azienda è comprensibile. L’importante è che non si finisca per lavorare solo per conto terzi».
Infine c’è un’ulteriore assillo in questi giorni sospesi fra passato e futuro, un pensiero che a molti toglie il sonno: quello dell’acquisto infrasocietario di Lactalis America recentemente compiuto da Parmalat per volere della stessa Lactalis, operazione tuttora all’attenzione della Procura di Parma per l’ipotesi di conflitto di interessi, nonostante nelle scorse settimane il tribunale civile abbia respinto la richiesta avanzata dagli inquirenti di revocare il consiglio d’amministrazione Parmalat: «Come abbiamo già sottolineato nei mesi scorsi – conclude Ferrari – si è trattata di un’acquisizione condotta nell’interesse del gruppo Lactalis, non di Parmalat».