In questo scritto del 1891 intitolato Dalla libertà alla schiavitù (apparso quale introduzione a un volume curato da Thomas Mackay), Herbert Spencer contrappone la logica della cooperazione volontaria, propria dell’economia di mercato, a quella della cooperazione forzata, fatta propria nei tempi moderni dal socialismo e da altre forme d’interventismo. Per il filosofo inglese il successo di quest’ultimo modello poggia sul fatto che di fronte a molti problemi sociali (a partire dalla stessa povertà) appare spesso più ragionevole suggerire soluzioni che delineino scorciatoie anche poco efficaci, ma più attraenti per l’uditorio. Spencer evidenzia come coloro che promettono semplicistiche soluzioni miracolistiche sono destinati, nei fatti, a promuovere una progressiva dilatazione del potere statale e una militarizzazione dell’intera società.
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L’INTERVISTA IMPOSSIBILE
Intervista impossibile a Herbert Spencer di Alberto Mingardi (Direttore generale, Istituto Bruno Leoni)
Professor Spencer…
Cominciamo male. Non sono “professore”, non mi chiami così. La mia era una famiglia di educatori privati, e mi sono interrogato a lungo sulla scienza dell’educazione. Ma per gli standard dei vostri tempi, ho avuto un’istruzione irregolare e, a conti fatti, la cosa non mi dispiace affatto.
Signor Spencer va meglio?
Decisamente.
Signor Spencer, lei è stato una autentica celebrità in vita ma delle sue opere, oggi, praticamente non si può più parlare. Le è rimasta addosso un’etichetta scomoda: “darwinista sociale”
E mai etichetta fu più sbagliata. Non le nascondo che ho grande rispetto per le ricerche di Charles Darwin. Ma le nostre teorie dell’evoluzione sono diverse. In più, chi mi dà del “darwinista sociale” lascia intendere che io sia stato un ammiratore acritico degli uomini d’impresa e il sostenitore di un individualismo piuttosto brutale, convinto che i poveri dovessero togliersi di mezzo con le buone o con le cattive…
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Non è così?
Non mi è mai sfuggito che la grandi ricchezze sono talvolta costruite sulla frode e sul raggiro. Soprattutto, non mi è mai sfuggito che – nell’Inghilterra nella quale sono vissuto, ma mi pare che le cose nel mondo d’oggi siano persino peggiorate – ci sono casi di eccessiva vicinanza fra impresa e politica, con la seconda che fabbrica provvedimenti e regole a vantaggio della prima.
Lei però individua due polarità, nell’evoluzione storica delle società umane: da una parte le società “militari”, dall’altra le società “industriali”. Il passaggio dalle une alle altre si accompagna a una diminuzione della presa del potere pubblico sui singoli e a un aumento della libertà individuale…
Il sistema della cooperazione volontaria è quello che caratterizza le società libere, e che si fa più pronunciato nel corso dell’evoluzione sociale. Il senso stesso della civiltà è l’evoluzione verso una forma di cooperazione volontaria nella quale nessuno può imporre alcunché ad altri, e men che meno costringerli con la forza ad obbedire ai suoi desideri. Al contrario, nelle società primitive ho individuato una forma di cooperazione forzata, del genere che si osserva non in un mercato (dove la gente è libera di scambiare o non scambiare certi beni o servizi) ma in un esercito, dove la sfera della volontà individuale resta subordinata alla volontà del superiore. È un grande processo storico. Anch’io l’ho spesso descritto facendo uso della fortunata formula di Henry Maine: come un passaggio dallo “status”, da una società nella quale ciascuno di noi aveva un “posto” assegnatogli alla nascita dal quale era difficilissimo uscire, al “contratto”, ovvero a una società nella quale siamo mutuamente dipendenti gli uni dagli altri in ragione di legami che ci siamo scelti. Mi sono accorto, col tempo, che era un tragitto assai meno lineare di quanto pensassi. Ma questo che cosa ha a che fare col “darwinismo sociale”?
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Me lo dica lei…
Assolutamente nulla. Non ho mai creduto che la morale dell’uomo d’affari fosse “superiore” ad altre. E nemmeno inferiore, a dire il vero: non c’è ragione per pensare che chi fa affari sia moralmente “diverso” dagli altri. La diffusione di pratiche fraudolente, a tutti i livelli, è una disgrazia, molto spesso alimentata da una ammirazione acritica per la ricchezza. Anch’essa è un atavismo: ai miei tempi si adorava il mero successo economico esattamente come in altri si idolatravano assassini seriali dichiarati “eroi di guerra”. C’è un successo economico che deriva dai benefici arrecati alla società nel suo complesso: quello che viene a una persona dal fatto di essere riuscita a interpretare le preferenze dei suoi simili, offrendo loro “cose” che essi desiderano. Quella ricchezza va ammirata, non quella che è frutto di maneggi oscuri nelle stanze del potere. Ma temo sia una battaglia persa. Io riterrei auspicabile che godessero di vasta approvazione sociale i bravi bottegai, invece le persone tendono a preferire i furbi d’ogni risma: banchieri che flirtano con la politica, zar d’imprese pubbliche o para-pubbliche che distribuiscono benefici a vantaggio di gruppi d’interessi specifici (a cominciare dalla stampa), politici che si scoprono generosissimi coi soldi degli altri.
Vede che forse i suoi critici non hanno torto. Lei ha scarsa simpatia per la generosità della politica; e quindi anche per quello che poi diventerà lo Stato sociale, ovvero per gli arrangiamenti istituzionali che sono stati sviluppati proprio per aiutare chi non riesce a reggere il passo dell’economia di mercato
Non ho fatto una vita particolarmente felice, e una cosa – guardi, su questo non c’è dubbio alcuno – mi è sempre stata chiara. Che, cioè, ci sono mille ragioni per cui una persona può “restare indietro”, come dite voi, e non farcela nella vita. La filantropia e la beneficenza privata mi sono sempre state care. E ho anche pensato che esse avrebbero avuto un ruolo tanto maggiore quanto più una società era evoluta. Pensavo anche che in società più libere, le persone di mezzi avrebbero devoluto sempre più energie a vantaggio del benessere materiale morale delle masse. Questa è una previsione che mi sembra di non aver sbagliato, non crede?
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Si spieghi meglio
Prenda una società che pure a me non piace granché, come quella americana…
Ricordo un suo discorso, a tale proposito, che fece scandalo
Eh sì. Avevo all’epoca in America molti ammiratori. Devo ammettere che forse sono stato uno scrittore meno dotato di quanto mi faccia piacere pensare. Anche costoro, riunitisi – bontà loro – per onorarmi, si aspettavano che io elogiassi quella sorta di “Vangelo del lavoro” che facevano proprio. Io mi alzai e dissi loro, grosso modo, di imparare a riposarsi, che la vita peggiora quando la nostra sola passione è fare affari, che l’assenza di devozione ai piaceri della vita, a cominciare dall’arte e dalla musica, è un delitto contro la posterità…
Non la presero bene…
Furono formalmente impeccabili, applaudirono anche se con scarsa convinzione, ed è vero, non la presero bene, ma che vuole che mi importasse? Stavo malissimo, ho sempre reagito male ai viaggi, e non vedevo l’ora di tornarmene a casa. Detto questo, mi sembra che la mia filippica non sia stata sprecata. Nell’America di oggi abbondano i capitalisti che si scoprono filantropi. Ora faccia bene attenzione. Io non credo che nessuno abbia il dovere di “restituire” alcunché alla comunità, come dicono alcuni con questa espressione un po’ ridicola: give back to the community. Se uno è diventato ricco onestamente, dando ai consumatori ciò che desiderano, vanta pieno titolo ai frutti del suo lavoro. Alla comunità ha già restituito molto, dal momento che è improbabile che sia diventato tanto ricco senza dare agli altri qualcosa di cui avevano bisogno. Se è un truffatore o un traffichino, è un altro discorso. Comunque, dicevo, non è questione di un preteso “dovere” giuridico (dovere di che? di farsi rapinare dallo Stato col sorriso sulle labbra?): è semplicemente una forma di comportamento coerente con la vita in una società libera. La gente sviluppa una forma di simpatia verso i propri simili, desidera essere ammirata e ammirevole. Per questo investe fior di quattrini nello sponsorizzare iniziative benefiche o grandi sale da concerto. L’America di oggi ne è un buon esempio: i ricchi gareggiano, si fanno concorrenza, anche nel far del bene.
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Si scoprono in lei insospettabili sentimenti umanitari
E perché insospettabili? Un mio lettore parecchio critico, ma intelligente, Robert Nisbet, mi pare l’avesse capito bene. Scrisse che (cito a memoria) “a dispetto dell’opinione comune, per cui la passione della libertà di Spencer consisteva soltanto nel dare licenza ai ricchi e ai potenti di fare ciò che desideravano, vi è una forte e persistente vena di umanitarismo nei suoi lavori”. Ai tempi vostri circola la bizzarra idea che se uno si cura del suo prossimo, desidera che lo Stato abbia il monopolio della solidarietà. Sarebbe come dire che se uno è appassionato di calcio, desidera che lo Stato sia l’unico proprietario di tutte le squadre. È un’altra delusione…
In che senso?
Vede, io da giovane pensavo che la strada per la libertà fosse ormai spianata. Pensavo che il processo dell’evoluzione andasse dal semplice al complesso, ed ero convinto (sono convinto) che la libertà sia necessaria a una società complessa. Il dirigismo funziona nelle piccole comunità, dove la decisione di pochi può orientare efficacemente la produzione di tutti i pochissimi beni sociali disponibili. Poche persone possono coordinarsi per produrre poche cose, che li metta in rigaun capo assoluto fa poco danno. Ma in una società estesa e complessa, in cui ci aspettiamo di avere a disposizione beni e servizi in misura sempre crescente, questa forma di centralizzazione non può funzionare. Quella che io chiamavo l’“eguale libertà”, il fatto cioè che la libertà degli individui trovasse un limite soltanto nell’eguale libertà degli altri individui, consente che l’individualità di ciascuno si esplichi nel modo più completo e compatibile con l’individualità altrui. È la libertà che fa sì che ognuno, perseguendo i propri fini, contribuisca a realizzare quelli degli altri.
Le dicevo: a me sembrava che la strada fosse tracciata. E invece…
E invece non si può andare soltanto “dalla schiavitù alla libertà” ma anche “dalla libertà alla schiavitù”, per citare il titolo del saggio che ci offre lo spunto per questa conversazione…
Precisamente. Io pensavo già che nella seconda metà della mia vita si fossero fatti, in quella direzione, molti passi. Sono morto nel 1903, non rimpiangevo granché la mia gioventù a differenza di molti vecchi, ma pensavo che sul piano politico vi fosse stato un grande arretramento. Ripensando al secolo successivo, non avevo davvero visto nulla…
A me pareva ovvio che selezionare i bisogni più urgenti tra un immenso numero di desideri fisici, intellettuali e morali, avvertiti in grado diverso da ciascuno, e comunque in mutamento continuo, fosse un compito che nessun legislatore può realizzare. Non c’è uno o più uomini che ispezionando la società sia in grado di accertare quali sono i suoi bisogni più urgenti. Occorrerebbe una intelligenza sovrumana, che non è a disposizione di nessuna autorità pubblica.
Temevo che da questo atteggiamento sarebbe scaturita la tirannia più immane e terribile che il mondo abbia mai conosciuto. E ricordavo rispettosamente, nel saggetto che lei ha citato, che abolendo la concorrenza non si avrebbe avuto più scambio volontario, ma salari e beni a disposizione delle persone sarebbero stati determinati da funzionari. Col piccolissimo problema che, come gli uomini d’affari non sono migliori degli altri, non lo sono neppure i burocrati: inevitabilmente egoisti e autointeressati come tutti. Il libero scambio non è perfetto, ma l’alternativa è di gran lunga peggiore. Questa è un’altra previsione che mi sembra d’aver centrato.
L’epoca dei totalitarismi, però, ormai ce la siamo lasciata alle spalle. Si direbbe che le sue preoccupazioni siano anacronistiche.
Ah, se solo lei avesse ragione. Potrei smetterla di rigirarmi nella tomba e dormire finalmente un sonno tranquillo. Il mondo nel quale voi vivete è ancora vittima di un male che avevo identificato già nel 1853…
Adesso non esageri con le autocitazioni. Avrà azzeccato qualche previsione, ma sulla sua idea di fondo, il progresso dallo status al contratto, dalle società militari a quelle industriali, lei stesso ha ammesso di aver corso troppo con la fantasia…
Sarà anche una magra consolazione, ma credo di aver individuato con una certa lucidità gli ostacoli a questo processo evolutivo. E siccome voi siete gente che legge poco e ricorda ancor meno, tanto vale che i miei meriti ve li rammenti io.
Le dicevo: nel 1853 ho scritto un saggio che s’intitola “Over-legislation”. Lì cercavo di spiegare che gli effetti della legislazione non sono mai solo quelli che il legislatore riesce a prevedere, e che la legislazione – che inevitabilmente è figlia di un certo tempo e di una certa, imperfetta, conoscenza del mondo – ha una rigidità che è incompatibile con una società complessa e proprio per questo continuamente cangiante. I legislatori e i politici promettono miracoli, gli elettori ci credono, poi ci si accorge che le norme hanno effetti talora di segno opposto rispetto alle intenzioni di chi le ha scritte. Qualche bello spirito ritiene che per risolvere il problema basti avere legislatori e politici più intelligenti.
Lei ne vorrebbe di più stupidi?
Non faccia il brillante. È un’emerita fesseria pensare che un Parlamento di persone più intelligenti possa avere a disposizione tutte le conoscenze necessarie, che mancano a un Parlamento di persone meno dotate. L’intelligenza non ha mai salvato nessuno dal fare errori: guardi me, ne ho prese di topiche, e per tutta la vita non ho fatto che pensare! La questione è seria: i vostri legislatori producono regole talmente ramificate che finiscono per rendere impossibile il progresso sociale. La complessità ha bisogno di regole semplici. Mi lascia dire un’ultima cosa?
Prego.
Mi sento in pena per gli statalisti. Anche oggi, che le istituzioni pubbliche assorbono una quota della ricchezza nazionale inimmaginabile ai miei tempi, c’è sempre qualcuno che desidera che lo Stato faccia di più. Ora, dico io, un po’ di buon senso. Ha presente la parabola dei talenti? “Bene, servo buono e fedele”, dice il padrone al servo che ha raddoppiato i denari che gli erano stati consegnati, “sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Nella parabola, il padrone premia il servo che ha fatto rendere i suoi quattrini, e punisce quello che non ne è stato capace. È quello che ciascuno di noi fa nel proprio privato. Poniamo che abbiate un consulente finanziario che vi ha fatto perdere dei soldi: che fate, lo premiate dandogliene di più da gestire?
Se le istituzioni pubbliche si fossero dimostrate capaci nel fare ciò che già oggi dovrebbero fare, avrebbe senso affidar loro altre incombenze. Ma invece sono tremendamente inefficienti, e deludono costantemente le aspettative che in loro erano state riposte.
Voi italiani siete gente ben strana: non passa giorno che non vi lamentiate del vostro Stato, e non passa giorno che non chiediate che faccia più cose. Stavolta non mi cito ma approfitto di un vostro famoso attore e regista di cinematografo. Andiamo avanti così, facciamoci del male.
CHI È HERBERT SPENCER (1820-1903)
Herbert Spencer (1820-1903) è stato uno dei più noti pensatori dell’Età Vittoriana. Strenuo difensore della libertà individuale, progettò una grandiosa “Synthetic Philosophy”, ampio sistema scientifico e filosofico incentrato su quelle idee evoluzionistiche a cui tutt’oggi è associato il suo nome. Autore di trattati di filosofia, sociologia e biologia, quale pensatore politico le sue opere maggiori sono “Social Statics” (1851), “Political Institutions” (1876) e la raccolta di saggi “The Man versus the State” (1884).