Rischio Italia. Torna l’incubo della tempesta europea

Tutela del risparmio a rischio?

È salito piano piano come un vento d’autunno, ma ormai soffia impetuoso e fa cadere le foglie. Nessuno ha osato parlarne, più per scaramanzia che per un amor di patria sempre piuttosto scarsino. I segnali, però, sono troppi per negare l’evidenza: sui mercati sta tornando il rischio Italia. Lo spread, il termometro maledetto, non lo ha ancora registrato perché la febbre dell’euro s’è placata. Non siamo nell’estate 2012 né, tanto meno, in mezzo alla tempesta perfetta del novembre 2011. Però le nubi si sono fatte dense e nere.Tutto parte da un sondaggio di Goldman Sachs dell’ottobre scorso. La domanda è semplice: in quale paese europeo le banche sono più a rischio? L’86% risponde l’Italia, molto meno la Spagna o la Grecia.

To put the environment into context, some 86% of respondents to a Goldman Sachs survey of investors, published Monday, say they expect a “credible” asset quality review and/or stress test to identify “meaningful” capital shortcomings in Italian banks, as opposed to 56% of respondents expecting trouble from Spanish banks.
(Serena Ruffoni, Wall Street Journal, 17 ottobre 2013)

Può consolare che anche la Germania sia in alto nella graduatoria, i titoli marci in questo caso sono ancora quelli americani congelati e non smaltiti o la quantità immensa di derivati che riempie i caveaux della Deutsche Bank. Ma il rating tedesco è solido, i capitali affluiscono copiosi, il paese cresce (le previsioni sono state alzate all’1,7 %) e ciò consente di allentare la pressione sulle banche locali impiombate dai mutui facili concessi prima del 2008. Dunque, è chiaro che gli operatori e i clienti della banca d’affari americana siano preoccupati soprattutto dalle aziende di credito italiane. I loro bilanci parlano chiaro: crediti inesigibili per colpa della recessione, ma soprattutto troppi Btp, qualcosa come 200 miliardi di euro. Altrettanti o forse qualcosa in più sono nei portafogli delle compagnie di assicurazioni: i titoli di stato italiani rappresentano addirittura la metà dei loro attivi, secondo Moody’s che accende una lampadina rossa. Standard & Poor’s va più avanti e abbassa il rating delle Assicurazioni Generali, sì proprio il Leone di Trieste, già porto sicuro degli orfani e delle vedove. 

L’allarme arriva anche a Bruxelles. Ed è un via vai con Roma. Olli Rehn ha detto chiaro e tondo perché la legge di stabilità non basta ed è poco credibile. Secondo il suo portavoce, per stare entro il limite del 3% nel 2014, c’è bisogno di trovare altri 6 miliardi di euro. Una manovra aggiuntiva, in altri termini. La spending review, infatti, darà frutto solo l’anno successivo e comunque non saranno grandi cifre. Non parliamo delle privatizzazioni. I dati sul fabbisogno mostrano un disavanzo di 95,8 miliardi, se le entrate di fine anno andranno bene si chiuderà a 84,5 miliardi, dunque oltre il 5% del prodotto lordo, rispetto ai 49,5 miliardi del 2012.  Il presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy il giorno dopo l’uscita di Rehn s’è incontrato a palazzo Chigi con Enrico Letta. Joaquìn Almunia, commissario alla concorrenza, ha discusso con le autorità italiane certo non solo degli aiuti a Mps, una banca tutto sommato di provincia, ma della ben più rognosa operazione di sostegno preparata in via Nazionale. La Bundesbank ha sollevato obiezioni di sostanza sulla rivalutazione delle quote di Banca d’Italia, un mezzo per favorire la ricapitalizzazione delle banche, a cominciare da Intesa e Unicredit che sono le principali azioniste. Secondo la banca centrale tedesca è tornata la famigerata «finanza creativa». Il capitale va aumentato, però serve denaro fresco. Solo che in Italia non ci sono capitalisti privati in grado di aprire il salvadanaio; quanto al pubblico, come si sa, non ha un euro. Prestiti come i Tremonti e i Monti bond, sono troppo onerosi. E di nazionalizzazione non c’è proprio aria. 

Enrico Letta, dunque, viene pressato da tutte le parti e rischia di trovarsi isolato al consiglio europeo del 19 prossimo, anche sulla questione controversa dell’unione bancaria. Il governo italiano è a favore, ma l’unione bancaria è un eufemismo: la vera questione in ballo è come consentire a una o più banche di fallire senza provocare una crisi sistemica, in altri termini un effetto Lehman Brothers. La soluzione tedesca si chiama in gergo bail-in, un salvataggio dall’interno, vuol dire che a pagare dovranno essere i depositanti e i risparmiatori. Per parafrasare una metafora tremontiana, il primo mostro, il crac del 2008, è stato battuto facendo pagare i contribuenti; il secondo, la caduta dell’euro, è stato affrontato dalle banche centrali che hanno inondato il mercato di liquidità e dalle banche commerciali che si sono riempite di titoli pubblici; il terzo mostro, una crisi bancaria su vasta scala che parte dall’Europa, viene combattuto attingendo al risparmio.

Ma c’è il piccolo particolare che il risparmio italiano è tutelato esplicitamente dalla Costituzione (articolo 47). Le pensioni sono state tagliate, i salari di fatto anche, ma il risparmio è più sacro della casa, è come una linea ad alta tensione, chi tocca muore. A quel punto il sentimento anti euro che sta montando persino nell’élite un tempo più europeista, diventerebbe deflagrante. Questo è lo stato dell’arte, dunque bisogna chiedersi se qualcuno comincia a pensare che, scatenando una nuova crisi, l’Italia sia costretta a cedere de jure e de facto. Senza essere complottisti, ci sono tutte le condizioni affinché ciò avvenga. La storia, del resto, sta lì a dimostrarlo. Torniamo all’inizio di tutto questo romanzo dell’euro, al fatidico 1992 in cui la lira crollò cominciando così la sua rapida fine. Al contrario di quel che vuole la leggenda, non fu un complotto giudo-plutaico-massonico guidato da George Soros, ma la conseguenza di una decisione tutta teutonica. 

Il 5-6 settembre i ministri e i governatori delle banche centrali europee si riuniscono a Bath, in Inghilterra, per cercare di risolvere le tensioni scoppiate tra le valute che aderiscono al Sistema monetario europeo (Sme). L’unificazione tedesca aveva aumentato l’inflazione. L’aumento dei rendimenti aveva attirato capitali facendo salire i tassi d’interesse proprio mentre la congiuntura economica rallentava. A Bath viene chiesto al presidente della Bundesbank, Helmut Schlesinger, di allentare la politica monetaria, ma lui rifiuta, minacciando di abbandonare la riunione: «Il mio mandato – dice – è garantire la stabilità dei prezzi in Germania non negli altri paesi». Il suo no innesca la battaglia delle due lire (sterlina e italiana) che si conclude con la svalutazione di entrambe. Il tentativo di salvare la parità consuma gran parte delle riserve della Banca d’Italia guidata da Carlo Azeglio Ciampi. E non è stata sufficiente nemmeno la stangatona di Giuliano Amato. 

Roma inondata nel 2009 (Afp)

Acqua passata? Non proprio. Il Trattato di Maastricht approvato pochi mesi prima, proibisce esplicitamente di assumersi le passività di altri paesi dell’Unione e alla sua lettera si attiene ancor oggi la Bundesbank. Quando nel novembre 2011 Andreas Papandreou allora primo ministro greco, propone un referendum sull’euro, viene spinto alle dimissioni. E’ il 9 novembre. Il giorno precedente ha gettato la spugna Silvio Berlusconi. Entrambi sono stati messi con le spalle al muro a Cannes, durante il G20 da Angela Merkel e da Nicolas Sarkozy. A Berlusconi e a Zapatero viene chiesto di accettare un salvataggio dal Fondo monetario internazionale, scaricando così l’onere e le responsabilità a Washington. Entrambi rifiutano. Anche Zapatero si dimette e il partito socialista viene sconfitto alle elezioni anticipate del 20 novembre. 

Questo non vuol dire che la storia si ripeta. Rispetto a due anni fa oggi esistono strumenti come il meccanismo salva stati che rappresenta senza dubbio un passo avanti rispetto alla lettera del trattato. Non è gratis, gli aiuti vengono concessi a dure condizioni, ma alla fin fine sono le stesse della lettera inviata dalla Bce il 5 agosto 2011 a Italia e Spagna senza che fosse accompagnata da nessun assegno. Inoltre, oggi la congiuntura migliora, anche se troppo lentamente, come ha ricordato giovedì scorso Mario Draghi. Il presidente della Bce sostiene di avere ancora una intera santabarbara a disposizione per soffocare ogni ulteriore attacco all’euro. Tuttavia ha glissato sulle domande a proposito dell’unione bancaria e delle operazioni per rafforzare le banche (compresa quella italiana). Conosce bene le insidie delle prossime settimane e incrocia le dita perché il consiglio europeo non si chiuda, come sembra probabile, rinviando di altri sei mesi tutte le questioni calde. Se sarà così, allora davvero c’è da aspettarsi che l’area euro torni a ballare. Incombe sempre, del resto, la sentenza dell’alta corte tedesca sulle Omt, le Outright monetary transactions, in sostanza l’acquisto di titoli pubblici sul mercato secondario, un altro strumento per spegnere i fuochi della speculazione. 

«Se non ci sarà più Europa vedo ancora rischi per la moneta unica», ha detto pochi giorni fa Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia. I mercati sono spietati (è questo il nuovo Zeitgeist), ma non stupidi. Di fronte a una Unione che rifiuta di unirsi, davanti a una moneta che resta appesa nel vuoto, senza una politica fiscale comune, senza un vero mercato unico delle merci, del denaro e del lavoro, come pensare che puntellino lo status quo e non scommettano invece su una nuova crisi, drammatica, ma comunque catartica? L’epicentro questa volta non sarà la Grecia né la Spagna o i piccoli paesi atlantici (Portogallo, Irlanda), ma il bersaglio grosso: l’Italia.

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