Si può ancora fare industria in Italia? Si può fare

Cosa insegna l'accordo all'Indesit

La crisi sta mettendo in ginocchio molte delle imprese tradizionali del “made in Italy”. Anche l’Indesit, uno dei leader europei della produzione di elettrodomestici, aveva annunciato lo scorso giugno un piano di ristrutturazione dell’assetto produttivo in Italia. A fine novembre si era dato avvio alla procedura di mobilità di 1.400 lavoratori, propedeutica ad altrettanti licenziamenti. Di fronte al precipitare della crisi, le parti sociali sono tornate al tavolo della trattativa che si è conclusa con un accordo firmato da tutti i partecipanti con la solita eccezione della Fiom. Vediamo di cosa si tratta, cosa prevede e quali sono i punti ancora da chiarire.

L’Accordo

La buona notizia è che Indesit ha ritirato la procedure di mobilità. Almeno per ora, non si parla più di licenziamenti. In questo periodo, è chiaramente un risultato importantissimo. L’azienda investirà 83 milioni di euro fra il 2014 e il 2016 «per l’innovazione di prodotto e di processo e per il riassetto produttivo». Le produzioni verranno concentrate in tre poli produttivi: Fabriano, Comunanza e Caserta, ognuno specializzato nella produzione di una categoria diversa di elettrodomestici (il testo completo dell’accordo è disponibile qui).
L’accordo prevede il mantenimento in Italia delle fasi a più alto valore aggiunto della catena produttiva. In particolare, l’Italia rimarrà centrale per la ricerca, l’innovazione e lo sviluppo dei prodotti.

La manifestazione del 12 luglio 2013 a Fabriano

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Accanto a queste attività “a monte” del processo produttivo, sarà possibile mantenere anche le produzioni tecnologicamente più sofisticate, che richiedono una forza lavoro particolarmente qualificata. L’Indesit sembra intenzionata a usare i siti italiani per la fase iniziale del ciclo di vita di un prodotto, quando la possibilità di innovare tanto il prodotto quanto il processo per produrlo beneficiano della vicinanza fra progettazione e produzione. Una volta che il prodotto diventa tecnologicamente maturo e le “economie di apprendimento” nella fase produttiva sono esaurite, sarà inevitabile trasferirne la produzione in paesi a più basso costo del lavoro. È l’approccio corretto per dare un futuro al manifatturiero in Italia nelle grandi imprese: investimento in innovazione di prodotto e in processi produttivi ad alto valore aggiunto, possibile grazie a tecnologie di produzione avanzate ed elevata professionalità della forza lavoro. Progettare e produrre forni “high–tech” è ancora possibile in Italia. Produrre piani di cottura tradizionali, venduti prevalentemente in Nord Africa o in Turchia, no. Prima prendiamo atto di questa realtà e meglio è.

Le questioni irrisolte

Affinché lo schema funzioni è necessario investire in ricerca e innovazione e in impianti alla frontiera della tecnologica di produzione. Ma occorre anche un assetto organizzativo che massimizzi l’efficienza e che garantisca di poter rispondere velocemente ai cambiamenti della domanda. Nell’accordo Indesit si parla esplicitamente di efficienza e rapidità dei processi. Tutte queste tematiche sono già emerse nell’ambito della vicenda Fiat. Anche in quel caso la strategia di rilancio si basa sull’innalzamento del livello qualitativo del prodotti (ricerca e innovazione) e sull’utilizzo di tecnologie di produzione d’avanguardia (rinnovamento dei siti produttivi). Insomma, è uno schema che caratterizzerà tutto il processo di ristrutturazione del sistema produttivo italiano. E dunque, perché sia efficace, le imprese devono avere a disposizione sia il capitale umano adeguato per le attività di innovazione sia gli strumenti giuridici e contrattuali per gestire questi processi complessi. E qui emergono alcune questioni che nell’accordo Indesit non vengono affrontate e alcune interessanti differenze con il caso Fiat.

In primo luogo, il ruolo delle istituzioni è molto vago. Il ministero delle Sviluppo economico «si è impegnato a valutare l’utilizzo di strumenti idonei (contratti di sviluppo e/o altro) […] finalizzati a supportare gli investimenti […]». Anche l’impegno della Regione Marche è solo a formulare proposte, mentre vengono nominati altri vaghi oneri per governo e regioni. Viene menzionato un progetto per un centro nazionale di ricerca a supporto del settore da localizzare a Fabriano. Senza dettagli è impossibile valutare il progetto. Visto così, appare troppo “ad impresam”. L’attività di R&S dev’essere fatta dalle imprese, che devono trovare il supporto di interlocutori tecnici di alto livello nelle università e nei centri di ricerca pubblici per portare avanti progetti congiunti che richiedono professionalità che le imprese non possono avere “in house”. Le istituzioni dovrebbero concentrarsi sul fare funzionare università e Cnr e sul favorire gli scambi con le imprese, piuttosto che creare centri di ricerca sugli elettrodomestici. L’unico impegno concreto è l’attivazione degli ammortizzatori sociali, preferibilmente attraverso contratti di solidarietà.

Allo stesso modo, l’esigenza di impianti moderni e flessibili chiama in causa il problema della gestione dei rapporti di lavoro. La vicenda della ristrutturazione degli stabilimenti Fiat si è giocata in gran parte attorno a questi temi, con la casa torinese che subordinava gli investimenti alla certezza dell’esigibilità dei contratti. A tal fine, la Fiat aveva preteso accordi stringenti con i sindacati. Il rifiuto della Fiom di firmare e le sentenze dei tribunali e della Consulta hanno reso questa strada un pantano. Bisogna trovare alternative. Ignorare la questione non è la via giusta. È tempo di dare un assetto definitivo alla gestione della rappresentanza sindacale.

L’accordo raggiunto alla Indesit presenta quindi luci, ma anche questioni irrisolte. L’approccio generale del piano industriale è condivisibile e imbocca l’unica strada percorribile per il mantenimento della centralità dell’Italia per l’Indesit. Se il piano avrà successo, sarà possibile mantenere i livelli occupazionali. Allo stesso tempo, la lotta contro il tempo per chiudere la trattativa ha portato a mettere da parte le questioni più delicate di un accordo di questo tipo: specificare l’impegno delle istituzioni e il contributo dei lavoratori. È difficile credere che il ritiro della procedura di mobilità sia avvenuto sulla base di contropartite così vaghe. Sarebbe stato molto meglio mettere nero su bianco il ruolo che le istituzioni avranno in questo processo e quali forme di flessibilità organizzativa si richiedono ai lavoratori. Sulla vaghezza ha sicuramente influito il modo in cui queste trattative vengono condotte. Sul testo dell’accordo ci sono quasi quaranta sigle e undici spazi per le firme (di cui solo dieci riempiti). Anche se si tratta di trattative complesse, che coinvolgono diversi soggetti, è difficile non provare un senso sovraffollamento. Forse, sarebbe ora di rivedere anche le procedure di negoziazione, riducendo il numero di sedie intorno al tavolo.

* articolo originariamente pubblicato su www.lavoce.info

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