È il 2003, Benjamin Gibbard ha ventisette anni, un passato da vegano, un presente da pescetariano, e una band che ha già pubblicato tre dischi capaci spingersi ben al di fuori del perimetro della loro città: Seattle. I Death Cab For Cutie ancora indossano la crisalide della band nata quasi per caso – come florida estensione di un progetto parallelo dello stesso Gibbard – hanno inciso con Barsuk e Sub Pop, hanno un sound coraggioso e insolitamente delicato per gli standard di quel nord ovest americano, e a vederli da bordo palco sembrano davvero destinati a imporsi sulla scena.
Quello che da bordo palco non si avverte, è che i Death Cab For Cutie stanno attraversando un periodaccio. Ben Gibbard ha messo da parte ogni indugio lavorativo per dedicarsi a tempo pieno alla musica e ha scritto una quantità impressionante di nuove canzoni; ma in quattro anni la band ha cambiato tre batteristi e, senza l’uomo giusto dietro le pelli, c’è il rischio di disinnescare quello che in potenza è il disco con la D maiuscola, quello della svolta, quello del “non si scherza più”, quello del “tranquilla, mamma, a casa non ci torno”.
Ora è facile dispensare sorrisi sornioni, Transatlanticism è uscito da 10 anni e ha sfondato ogni possibile barriera: sancendo la consacrazione di un genio della ritmica come Jason McGerr e proiettando i DCFC in un olimpo a cui probabilmente nemmeno avevano mai pensato di poter accedere. Ma ascoltando i demo delle singole canzoni – allegati come bonus content all’edizione speciale pubblicata per il decennale o reperibili in solitaria nella versione Transatlanticism Demos – si fa una certa fatica a intravedere il capolavoro.
L’errore più comune che si tende a fare, ascoltando i DCFC, è convincersi che quell’intrico perfetto di arrangiamenti sia frutto di una sinergia spontanea, dovuta a una felice sintonia tra talenti ai quali è bastato passare sufficiente tempo insieme in saletta per sviluppare un sound marmoreo. Ascoltando i demo che Gibbard ha auto-inciso si capisce invece che se non ci fosse stato un lungo lavoro di composizione, ricomposizione, cesellatura e autocritica, Transatlanticism sarebbe rimasto un pregevole incartamento di buone intuizioni e intenzioni.
Per farsi un’idea dello scarto tra l’embrione Transatlanticism e il suo stadio maturo, è sufficiente ascoltare la prima versione di The Sound of Settling, probabilmente la canzone più gigiona di tutta la produzione DCFC, quella che conoscono TUTTI perché l’hanno piazzata dappertutto, persino in una puntata di OC. Ecco, in origine questo gioiello doveva essere molto più lento e trascinarsi per 2 minuti e 37 secondi senza che ti venisse manco lontanamente voglia di scuotere la testa. Per fortuna poi sono intervenuti Chris Walla (chitarrista dei DCFC e produttore di tutti i loro dischi, il quale pare abbia insistito perché i bpm venissero aumentati) e Jason McGerr (che ci ha piazzato una parte di batteria che saprebbe far muovere il culo anche a Josh Haden) e il brano ha raggiunto il giusto punto di cottura.
Un discorso diverso vale per la title-track, che a sentire lo stesso Walla in origine doveva essere una canzoncina da due minuti e mezzo, del tutto priva dell’epicità rarefatta che l’ha resa celebre. «Mentre la provavamo ci sembrava incompleta, come se mancasse una parte» ha spiegato Walla in un’intervista ad Alternative Press «In realtà non mancava nessuna parte, bisognava solo aumentare le dosi di quelle presenti». Tocca dirlo: la versione che appare nei demo è un concentrato di noia cadenzato da una batteria minimal e una tastiera fastidiosamente ricorsiva. Dura sei minuti e mezzo, segno che a questo punto della gravidanza, Gibbard e soci avevano già deciso di dilatare i tempi (sarebbe interessante sentire anche quella prima versione da meno di 3 minuti, ma attualmente è introvabile.)
Naturalmente, alcuni pezzi sono rimasti pressoché uguali (è il caso di Expo ’86 e Death Of An Interior Decorator), ma nonostante ciò, anche questi risultano difficili da digerire. Man mano che si ascolta il demo ci si rende però conto di una cosa: mentre la batteria, il basso e le parti sovraincise sono drammaticamente lontane dall’eccellenza di Transatlanticism, la voce e i riff principali sono il più delle volte identici alla versione finale che ha raggiunto i negozi il 7 ottobre 2003. La cosa appare lampante in pezzi come Lightness e la stessa Sound of Settling le quali, nonostante il piglio radicalmente differente e la struttura ancora acerba, mostrano linee vocali già ben definite, il che lascia intendere che Ben Gibbard abbia la tendenza a finire il lavoro riguardante la voce prima di affidare le proprie canzoni nelle mani della band. È come se Gibbard conoscesse così bene le persone con cui lavora da intervenire solo dove la sua mano è richiesta, lasciando ampio spazio a chi poi dovrà trasformare la bozza in canzone completa. Non è una cosa scontata per un cantautore. Saranno gli esami di ingegneria (no, non si è mai laureato; proprio come D’Alema), sarà la fiducia che ripone in Chris Walla (uno che saprebbe trasformare in oro persino i B-side di Daniel Johnston), fatto sta che questo insolito processo compositivo consente ai DCFC di impalcare strutture melodiche allo stesso tempo delicate e robuste, che riescono sempre e comunque a mantenerli alcune spanne sopra la superficie appiccicosa dell’indie contemporaneo.
Quando gli hanno chiesto cosa significasse la parola “Transatlanticism”, Ben Gibbard ha spiegato che è una parola con cui ha cercato di dare una dimensione più comprensibile a quell’incolmabile distanza che separa due persone, sia che esse si trovino alle due estremità di un oceano che ai due lati di una stanza. Curiosamente, questa figura si adatta perfettamente anche a descrivere il divario tra la prima bozza di Transatlanticism e la sua realizzazione compiuta. Tecnicamente si tratta dello stesso disco, ma allo stesso tempo le due versioni sono quanto di più diverso possa esistere.